Per la sua prima personale italiana,
James Hopkins (Stockport, 1976; vive a Londra) presenta una serie di suggestive sculture, nate da una profonda riflessione sulla transitorietà della condizione umana. Inglese di nascita, Hopkins gioca sulla simbologia delle immagini, sull’equilibrio degli oggetti e sulla disposizione nello spazio, dando vita a una sorta di illusione visiva che re-interpreta gli elementi tradizionali e li rende contemporanei.
La realtà, si sa, muta costantemente: solo l’arte non muore mai. Il ricorso all’arte può salvaguardare il ricordo nel tempo. Così il concetto di
vanitas (esemplificato dalla figura del teschio), caposaldo di una cultura moralista, religiosa e filosofica secentesca – da lui utilizzato in varie installazioni – f
unge da monito per ricordare ai visitatori quanto sono passeggeri su questa terra e quanto siano effimeri il piacere e le gioie materiali.
I lavori di Hopkins stimolano la riflessione, scuotono e sconcertano. Oggetti di uso comune assumono forme e significati nuovi: da una bara si può ricavare un tavolo, un violino, una candela, un libro (
Life style); una pistola può nascere paradossalmente dalle pagine di un Vangelo, se accuratamente ritagliate (
The Last Supper); un ragno camminare sul legno della chitarra dal quale è stato ricavato (
Arachnophonic). La presenza delle cose e il loro emergere implica, però, la costante assenza dell’uomo.
Conrad Ventur (Seattle, 1977; vive a Londra) affronta in chiave artistica il concetto di mito. Nella società contemporanea non ci sono più miti indistruttibili, ma solo apparizioni fugaci, che non si adattano però alla cultura, al tempo e alle esigenze delle diverse epoche.
Per affermare questo concetto, ricorre a un espediente metaforico: la moltiplicazione dell’identità di un mito del passato. E sceglie Marlene Dietrich, che rivive così nella sua installazione artistica. Ventur sceglie un momento particolare della carriera della stessa: la toccante esecuzione della canzone
Where have all the flowers gone di Pete Seeger nel 1972. Una pagina di storia che vede la protagonista esporsi in prima persona, nella sua fisicità disarmante (ormai settantenne), e cantare su un palcoscenico contro la guerra.
Questa esperienza viene moltiplicata dall’artista all’infinito, attraverso una proiezione caleidoscopica in una stanza buia, che produce un movimento vorticoso che coinvolge e allo stesso tempo disorienta lo spettatore. Un turbine emotivo per farci riflettere sul passato e mettere in discussione il presente.