L’esposizione alla Galleria Emmeotto s’inserisce in un
quadro più ampio di scoperta e promozione a Roma dell’arte contemporanea
proveniente dal più bistrattato dei continenti che, dopo essersi affermata a
Parigi e Berlino e, più faticosamente, a Londra e a Milano, cerca uno spazio di
maggior visibilità.
Il progetto è a cura di Enrico Mascelloni – uno dei pochi
curatori esperti d’arte africana -, che ha sfruttato la propria rete di
conoscenze e il proprio rapporto anche personale con gli artisti per comporre
un itinerario visivo fatto di lavori commissionati oppure realizzati a partire
da una suggestione comune, come
Euridice (1999) di
Almighty God.
Il risultato è un mosaico eterogeneo che coinvolge diverse
tecniche artistiche, dall’installazione alla pittura alla scultura in
terracotta di
Amedékpémouléou, e diversi stili. Sempre un po’ in bilico fra una
tradizione rivista e corretta (pensiamo al ‘pop’ del compianto
Georges
Lilanga) e il
desiderio di smarcarsi da un’eccessiva componente etnica, raccontando la vita
così com’è oggi, come fa
Lonaa.
Una mostra monumentale nelle intenzioni, poiché vuole
riprodurre uno sguardo complessivo sull’arte contemporanea africana, ma anche
nelle dimensioni, visto che le opere sono tutte di grande formato e gli autori,
riuniti insieme, suggeriscono una riflessione davvero organica, esplorando
ognuno per proprio conto una gran varietà di temi, sempre confrontandosi con un
modo di fare arte al confine con l’artigianato, nodo critico mai completamente
risolto.
L’operazione appare riuscita nel momento in cui, pur
presentando solo una o due opere significative per ogni artista, si induce il
visitatore ad approfondirne la conoscenza. Quasi un assaggio, che ingolosisce a
saperne di più.
Ecco quindi la
Bara barile di
Paa Joe, irriverente erede di una
tradizione religiosa africana che vuole per i propri morti sepolcri più che
fantasiosi; i paesaggi un po’ pop e un po’ vuoti di
Richard Onyango; le donne-idolo dal volto celato
e dalla sensualità primitiva ritratte dal fotografo
Ousmane Ndiaye Dago; le simil-
mater Matutae di
Seni Camara, oggi una delle più note artiste
africane, presentata in Occidente in occasione della mostra-evento
Les
Magiciens de la Terre (1989).
Sicuramente il denominatore comune, se si vuole cercarne
uno, è la propensione alla figurazione e la vena narrativa che emerge con
prepotenza, non per forza con finalità di denuncia, in un’esplosione di energia
colorata.