Tornate al loro splendore dopo il delicato intervento conservativo, le tele di Galileo Chini (Firenze 1873-1956) allestite nella sala delle colonne della GNAM, fanno mostra di sé occupando scenograficamente le pareti sui tre lati e avvolgendo lo sguardo in uno scintillante e raffinato gioco di geometrie e colori. La storia di questi pannelli realizzati dall’artista fiorentino per la decorazione del salone centrale in occasione della IX Biennale di Venezia del 1914, in soli sedici giorni e senza compenso – se non il rimborso dei materiali – si intreccia fittamente con la storia della Galleria Nazionale di Roma. Deus ex machina della vicenda è Palma Bucarelli che nel 1974 acquisisce quattro delle diciotto tele che ne compongono il ciclo completo, smembrato dopo l’esposizione veneziana, in parte acquisito in collezioni private (tra cui le cinque tele comprate dal regista Luchino Visconti per decorare la sua villa di Ischia), in parte rimasto di proprietà dell’artista e, alla sua morte, di suo figlio Eros.
Di un sapore orientale e quasi bizantino con tutta la modernità del disegno e della linea liberty, il ciclo viene realizzato da Chini reduce da Bangkok, dove aveva soggiornato dal 1911 al 1914 impegnato a decorare la Sala del Trono del re del Siam. Ed una memoria di gusto orientale quella che Chini trasfonde e sublima in questi pannelli reinterpretando l’estetizzante fulgore del mosaico con una modernità che lo accosta alle contemporanee arti della secessione viennese, prima tra tutti quella di Gustav Kilmt (Vienna 1862-1918), alla cui celebre Nuda Veritas, in base ai cartoni preparatori di questi lavori, sembra l’artista si sia ispirato.
Eppure, malgrado l’apparente richiamo ai modi di Klimt, la Primavera di Chini tradisce una sensibilità diversa da quella – tra l’onirico e l’evanescente – che caratterizza la decadente estetica dell’autore de Il bacio. Non c’è traccia infatti, nella vena artistica del maestro fiorentino di quella suggestione simbolica tipica di Klimt né di quella sospensione che colloca i soggetti in una dimensione atemporale assoluta. C’è invece in Chini, la tradizione di un’estetica tutta italiana, che non abbandona il culto della forma e del disegno, probabilmente ereditata dalle lezioni alla Libera Scuola di Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, che Chini frequentò non ancora ventenne, unita ad una passione per la decorazione che lo accompagna fin da bambino, con l’apprendistato presso uno zio restauratore.
L’istallazione della Primavera alla Galleria Nazionale ci restituisce quasi totalmente l’opera così come Chini la concepì per il salone della Biennale recuperando perfino il grande tappeto centrale
Già autore della scenografia per la reggia di Turandot nella prima edizione dell’opera diretta da Toscanini nel 1926, Chini compone questa Primavera con una sapienza scenica di forte impatto teatrale e una sensibilità per il movimento che non è estranea alle coeve ricerche futuriste, che si traduce in equilibrio ritmico nell’alternanza delle diverse superfici e nella dinamica del rapporto figura/sfondo.
La primavera diventa così la summa dell’arte di un grande decoratore, ma soprattutto l’opera di un artista completo che seppe trasfondere e unire nella tela oriente e occidente, opulenza barocca e linearità liberty in una sintesi tra colore, luce, movimento e forma esteticamente essenziale.
La stessa essenzialità che, non a caso, riemergerà nella sua sensibilità più matura, quando intorno agli anni trenta, da decoratore magniloquente, si ritirerà accarezzando intime visioni di paesaggi con una sensibilità tutta fiorentina di memoria macchiaiola.
emilia jacobacci
mostra visitata il 28 dicembre 2004
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