Tutte opere inedite o mai pubblicate quelle in mostra: 64 dipinti provenienti dalla collezione privata dell’imprenditore milanese Luigi Enrico Koelliker, ad oggi con i suoi mille esemplari la più importante sul territorio italiano. Un nome e un volto tra gli anonimi acquirenti che popolano le sale delle vendite all’asta. Vari sono infatti i quadri in mostra acquistati sotto il battito del martelletto, un modo per conoscere e ricostruire percorsi di opere altrimenti sconosciute o quantomeno non “visibili” pubblicamente.
Non un’antologica del pittore Pierfrancesco Mola, come quella di Lugano e Roma del 1989, ma un confronto dialettico tra l’artista, i suoi maestri, i suoi discepoli, l’entourage. Quello romano ovviamente, ambiente in cui crebbe l’arte del Mola e che lo adottò. Il pittore nacque (1612-1666) ticinese, ma Roma fu certamente il centro dei suoi interessi tanto che nelle fonti si parla di lui come di “Francesco Mola Romano” molto più che di “Francesco Mola Svizzero”.
I saggi di Francesco Petrucci (curatore della mostra e padrone di casa a Palazzo Chigi) e di Claudio Strinati contenuti nel catalogo, offrono un’approfondita panoramica sull’artista, la sua assodata fama e importanza, i suoi committenti, la ricostruzione della cronologia della vita, la formazione e l’influsso che esercitò su altri pittori. Riferendosi alla sua cultura figurativa si è parlato di neovenezianismo, per l’uso del colore, di naturalismo per l’approccio diretto al reale sulla scia non tanto di Caravaggio quanto del caravaggismo da cui si distacca però per l’uso del disegno. Infine di classicismo emiliano, acquisito dalla militanza nelle botteghe dell’Albani e del Guercino. Certo è che la figura di Mola è quella di un artista completo “sia nell’ambito creativo (…) della pittura di storia che (..) in quella di paesaggio e la ritrattistica” (Petrucci).
Tre le sezioni della mostra a partire dai Maestri di Pierfrancesco Mola tra cui, oltre al suo, spiccano i nomi del Guercino, del Cavalier d’Arpino (che non a caso fu uno dei maestri anche di Caravaggio) e dell’Albani. A seguire L’ambiente artistico romano con opere tra cui molti ritratti, del Lanfranco, Salvator Rosa, il Baciccio e tanti altri il cui filo conduttore è il già citato neovenezianismo. E per finire Gli allievi di Pierfrancesco Mola dove, tra discepoli veri e propri e più genericamente del suo ambito, spiccano i nomi di Giovan Battista Boncori, Antonio Ghepardi e del Borgognone.
Tra tutte queste opere del Mola ce ne sono solo cinque, però, con particolare attenzione al Dio Padre, che vede la figura dell’Onnipotente stagliarsi con il dito della mano destra alzato in atto di giudizio, e con il braccio sinistro appoggiato sul globo terrestre. Sotto di lui, dai capelli e dalla folta barba candida, un ammasso di nubi. Un bellissimo ritratto di vecchio, e ce ne sono molti in mostra (in particolare quello di Mosè), una fedele riproduzione dal vero. Più che la caratterizzazione divina è evidente la cura del dettaglio di caravaggesca memoria, nell’insistere sulle pieghe della fronte aggrottata, sull’emergere delle vene delle mani, nel contorno marcato delle unghie contadine. Ma alla rappresentazione di un vecchio di campagna si sovrappone lo sfumato emiliano della barba, accanto alla veste dal tonalismo veneto. Proprio questa in sintesi la novità del suo linguaggio figurativo, il risultato del suo lungo grand tour. Inoltre degna di nota è la piccola tavola sotto teca di Monsù Bernardo, un Ritratto di ragazzo colto nell’atto di riempire un secchio a una fonte d’acqua. Ed è un racconto fatto di gesti semplici, quotidiani.
valentina correr
mostra visitata il 27 gennaio 2005
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