La ragazza con l’animale fissa l’osservatore con occhi scavati, scontornati più e più volte dagli strati di colore a olio; è vicino al suo compagno antropomorfo, anche lei a quattro zampe; la sua pelle è rosacea, sembra nuda. Siamo sicuri che sia lei la donna?
Le tele di
Allison Schulnik (San Diego, 1978; vive a Los Angeles) sembrano incontrare i primi lavori di
George Baselitz, quelli in cui il colore diveniva materia e gli animali-uomini di
Quattro Strisce (1966) si scambiavano parti del corpo in sezioni di tela. Ma alla pittrice americana non importa suddividere il rettangolo di lavoro: le “basta” giocare con matasse corpose di verdi acidi, neri bluastri, rossi e bianchi, creando l’espressività di un volto con la quantità di olio applicato. È così anche per i due
Long Hair Hobo (2008), stregoni indistinti, nascosti nella propria ombra, da cui sbucano due tondi occhi di olio massiccio.
Le figure di Schulnik sono immaginarie, abitano il suo mondo e cercano di affacciarsi al nostro tramite strati di colore, percepibili dalle estremità della tela. Osservando un suo dipinto di lato, si scoprono ondate cromatiche sovrapposte le une sulle altre che, sommate, esplodono in un’inaspettata stesura che si esprime nell’immagine del quadro.
D’altronde, la Galleria 1/9 non poteva non tener conto, nella sua scelta internazionale, di una pittrice dalla forte personalità espressiva, forte al punto tale da convivere in mostra con il site specific degli
Artists Anonymous (vivono a Berlino e Londra). La terza sala della galleria è infatti interamente dedicata alla composizione architettonica di una stanza, le cui pareti sono ricoperte da un poster in bianco e nero dalle vaghe reminiscenze fantasy. Il pavimento è una sabbia di sassolini, bianchi e neri anch’essi, adeguatamente e cromaticamente separati. La stanza degli artisti anonimi è insomma una stanza d’immagini in positivo e negativo.
Segno distintivo della loro pratica artistica è appunto la spersonalizzazione della fotografia: la dualità dell’immagine viene suddivisa nel suo bianco e nel suo nero, alterando la percezione del fruitore, che stenta a riconoscere l’uguaglianza di due immagini, riprodotte l’una al negativo dell’altra, l’una dove posa la sabbia chiara, l’altro dove posa la sabbia scura.
C-print, oli su tela o dipinti su carta divengono gli arredi di questa stanza surreale e confusionaria, esattamente speculari nella loro controparte in negativo. Se l’osservatore all’inizio poteva rimanere ipnotizzato dagli sguardi complessi delle figure di Schulnik, nella stanza del trio rimane completamente disorientato.
Un’altra bella “prova di percezione” sulla pelle del fruitore, che – memore della
Nebulaphopia di
Mat Collishaw – entra in galleria consapevole di essere lui la prima cavia dell’artista.