Concepiti per l’occasione, gli affastellati lavori di Wolfgang Plöger (Münster 1971, vive a Berlino) tentano di trasmettere al visitatore la sensazione di claustrofobia che si prova negli ambienti angusti. Le opere riempiono tutto lo spazio -dal soffitto al pavimento- creando così percorsi contorti, nei quali muoversi con accorta cautela, per non colpire un’installazione o sbattere contro una pellicola. Con una poetica fredda e distaccata, quasi da scienziato che analizza e seziona, Plöger carica ogni lavoro di significati estremamente concettuali, dando voce alle sue personali ossessioni.
Nella selva delle opere si può comunque rintracciare un itinerario, che inizia a metà della galleria con un calco. L’oggetto riproduce lo spessore esistente tra lo stipite e la porta dello studio dell’artista. E’ il passaggio da un ambiente all’altro, tra interno ed esterno, tra la parte espositiva e quella dove sono invece conservati i cataloghi, i libri e i progetti dei lavori stessi. Tra il luogo della riflessione e quello della realizzazione.
Lo spazio è avvertito come qualcosa che intrappola e che si cerca di dominare. Da qui il calco in miniatura della galleria, da cui l’artista si è poi liberato, lasciando però l’impronta dei suoi piedi. Piedi che poi zompettano liberi, stavolta nello studio berlinese dell’artista, dove una telecamera fissa riprende gli sciolti movimenti di Plöger davanti all’obiettivo.
Anche la celluloide è sentita come uno spazio da conquistare e viene trattata come un oggetto su cui si fissare le immagini di azioni convulse, prive di uno scopo specifico. In piedi, fermo, in movimento, rannicchiato, fuori campo, in primo piano, l’artista sembra un animale in gabbia, insofferente al suo stato di prigionia.
Queste immagini sono visibili però solo osservando da molto vicino la pellicola che, come un nastro, si srotola intorno a dei neon posati sul pavimento, sale verso il soffitto e ridiscende di nuovo sul pavimento intorno ad un altro neon. A formare una scura tenda su cui le ombrose sagome fissate nei singoli fotogrammi creano nastri decorati. Si genera un hortus conclusus dove il “ritratto” di Plöger è proiettato orizzontalmente in basso sulla parete, come se l’artista fosse sdraiato su una brandina. Un’immagine fissa in cui sono solo gli impercettibili movimenti del volto che denunciano il lento trascorrere del tempo.
daniela trincia
mostra visitata l’11 luglio 2005
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