Pittore, scultore, regista, pubblicista; versatile, poliedrico, mitomane; visionario, innovativo, lungimirante, provocatorio; ripetitivo, seriale, artificiale, penetrante, incisivo; singolare, narcisista, raffinato. Risulta quasi impossibile trovare un nuovo aggettivo che possa descrivere la personalità e la produzione artistica di
Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987).
Le innumerevoli mostre, eventi, libri o discussioni svolte intorno alla sua personalità hanno portato all’artista americano a una tale celebrità che nemmeno lui stesso avrebbe forse potuto immaginare. Così, i famosi quindici minuti di notorietà che spettano a ognuno, secondo una sua popolare affermazione, sono diventati una vera e propria assenza di limite temporale, nel suo caso.
Il pubblico si è abituato a vedere nei suoi lavori le grandi icone della storia dell’arte, del cinema, della musica o della politica in riproduzioni seriali, così come i prodotti più cospicui del capitalismo, sconsacrati attraverso il potere mediatico, per renderli organici al consumo di massa. E
ppure, il numero degli appassionati e dei cultori decresce sensibilmente quando si parla della sua vita privata, ossia non delle affascinanti apparizioni pubbliche ma della più semplice intimità.
Come parziale palliativo di questa presunta scarsità d’informazioni, la Galleria Ugo Ferranti presenta alcune immagini fotografiche tratte da una serie che è il risultato delle conversazioni telefoniche di Warhol con l’amica e assistente Pat Hackett. Conversazioni che avvenivano a un’ora stabilita della mattina, ogni giorno dal 1976 sino a pochi giorni dalla morte, avvenuta nel febbraio del 1987. In quelle occasioni, Warhol raccontava le sue esperienze di vita, gli incontri occasionali, i dialoghi o le sensazioni avvertite.
Una sorta di autobiografia inconsueta, lontana da qualunque cenno alla banalità e narrata attraverso le fotografie della sua quotidianità. Lo troviamo quindi ritratto insieme a personaggi come Jean Paul Gaultier,
John Cage, Grace Jones e
Roman Polanski, oppure immortalato durante i suoi viaggi e le sue trasgressioni. Immagini che sono parte integrante della sua complessa personalità, di una vita vissuta in bilico tra la spettacolarizzazione più evidente di se stesso e le negazioni delle crisi più astruse.
La mostra romana gioca proprio su questo confine tra ambiente pubblico e privato, e mira ad analizzare e rendere manifesto un ulteriore aspetto d’un artista troppo famoso per essere realmente conosciuto sino in fondo. Una mostra che prova a cancellare quei quindici minuti di popolarità per concedere, almeno per un breve lasso di tempo, una pausa rifiutata in vita dall’artista. Una pausa chiamata intimità.