Virginia Lopez (Gijón, 1975; vive a Firenze) dice di amare il colore, ma sente di non appartenerle. La sua formazione è teorica – parte dalla laurea in Storia dell’arte – pur avendo avuto fin da piccola una certa disinvoltura nell’uso dei pennelli, consolidata frequentando lo studio di un pittore. È attiva sulla scena artistica dal 2003.
Dapprima amava il romanico e odiava la pittura classica; da quando però è in Italia, al suo antico amore per l’essenzialità dell’architettura e della scultura si è aggiunta la scoperta del colore di
Piero della Francesca, della luce, del suo silenzio. Tra i contemporanei, invece, predilige l’arte informale, l’espressionismo astratto e cita il lavoro degli spagnoli
Antoni Tàpies e
Eduardo Chillida.
Eppure le sue opere sono dominate quasi esclusivamente dal bianco, dal panna, dai neri nei passaggi di grigio. Del resto, anche le ombre o le impronte non sono affatto colorate. Una descrizione per riduzione, la sua, ai limiti dell’essenzialità nella costruzione stessa dell’immagine. G
esti, movimenti, una mimica appena accennata, impressa sulla superficie ricorrendo alla lentissima tecnica fotografica della gomma bicromata, antica e pittorica.
L’incontro con la fotografia s’inserisce casualmente nel linguaggio di Lopez. Ha il sapore della scoperta a cui segue la sperimentazione. È l’aspetto legato alla sensibilità ad affascinare l’artista spagnola. Il fatto poi che ricorra all’autoscatto, quindi all’auto-rappresentazione, è dettato esclusivamente dalla praticità. Volti e corpi perdono l’identità originaria per assurgere a simboli, metafore di quello che è il motivo dominante di
Sospensione, questa sua prima personale romana: un senso di leggerezza (più grafico che psicologico), ma anche di fragilità.
Uno stato d’animo bloccato, talvolta ingabbiato nel momento; “
una mistica aura di cambiamento e attesa”, come scrive Micòl Di Veroli, ma anche la rappresentazione dell’incomunicabilità. In questa fase “transitoria” trovano collocazione anche alcune tracce del mondo reale, che entrano nell’opera con l’estrema naturalezza che li caratterizza: il filo di rame, i petali di papavero e la rafia.
Nei lavori che Lopez porta avanti dal 2007 è la cera a inglobare i fotogrammi, fra stati di velature. In quelli più recenti, di dimensioni maggiori, il confine tra dentro e fuori è ottenuto con la lastra di plexiglas. È questo materiale a creare quella spazialità che con la cera – la quale, quando si solidifica, rimane più compatta – non sarebbe possibile.
La superficie trasparente, però, non è mai “pulita”, ma è attraversata da pennellate di bianco, segnate da graffiature che lasciano scorgere la sagoma che affiora dalla carta. Un vedere/non vedere mai fine a se stesso.