Procedendo
per eliminazione, sparisce ogni dettaglio superfluo. A rimanere è solo la
struttura ossea: lo scheletro, estrema sintesi di un concetto che è filosofico,
letterario, artistico
tout court.
Una
sperimentazione che
Benedetta Bonichi (Alba, Cuneo, 1968; vive a Roma) porta avanti dagli anni ‘90. La sua
ricerca, vicina ai tentativi dello scienziato, parte dalla scultura di ombre
per approdare alla fotografia. In mezzo c’è la scoperta della radiografia, e
poi del video, intorno a temi costantemente affioranti: realtà e amore.
Nella
primavera del 2009 prendono forma alcune poesie e, parallelamente, il nuovo
lavoro fotografico. Naturalezza e ironia sono le chiavi d’accesso a questi
“esercizi d’amore”, complice Platone (riscoperto nell’introduzione di
Io e
l’altro di Guido Davico Bonino),
il
Kamasutra e gli
Essays in
love di Alain De Botton, che dà il
titolo anche alla mostra da Tricromia, prima tappa di un percorso che
proseguirà a Bruxelles e, nel gennaio del 2010, al Museo Wilfredo Lam de
L’Avana.
“
È
l’idea primordiale dell’identità violata e frammentata”, spiega l’artista. Gli otto grandi puzzle
fotografici evocano una sessualità sfrenata e gioiosa, esaltazione di quella
complementarietà di pieno/vuoto a cui l’essere umano aspira da quando Zeus
decise di umiliare gli uomini (la cui natura era stata fino ad allora
raddoppiata), tagliandoli in due. “
Queste due metà devono rincorrersi per
tutta la vita per unirsi. È la metafora dell’io. Ognuno di noi ha un vuoto
continuo. Che cos’è la conoscenza se non la ricerca della propria identità
all’interno di uno spazio, interiore ed esteriore, sempre più grande, nel quale
ci sentiamo soli perché siamo incompleti?”. L’atto amoroso come potenziale strumento di conoscenza e
ricongiungimento all’unità.
Bonichi,
affascinata dalle “
architetture fantastiche e perverse” che si vengono a creare dall’incontro delle ossa,
sceglie di raffigurare “
l’idea retorica del fondersi nell’amore” attraverso lo scheletro, anche perché depura il
soggetto dell’identità individuale.
Sfogliare
un libro di fotografie pornografiche
fin de siècle, ritrovato per caso, è illuminante: “
Vedere
questa sorta di bisnonni in posizioni scabrose, sorridere e ammiccare alla
macchina fotografica, fondendosi in posizioni pittoriche, ha dato lo schema dei
lavori realizzati”.
La
messa in scena avviene nel suo studio: l’artista sospende gli “chassis” alle
impalcature e scatta centinaia di foto digitali. Una luce metafisica, creata
dalla combinazione di contrapposizione e incidenza, fa brillare il bianco delle
ossa. Le immagini vengono ricomposte, secondo il canone della verosimiglianza,
sullo schermo del computer. Anche la stampa al carbone ha un ruolo decisivo,
perché lo sfondo compatto – nero opaco – “
è lo spazio in senso astronomico e
non pittorico”.
Situazioni
surreali proposte con estrema disinvoltura, grazie al “trucco” usato anche dai
grandi maestri del passato: distrarre con il particolare lo sguardo
dell’osservatore.
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