Sintetica la mostra di
Francesco Cervelli (Roma, 1965) da Dora Diamanti. Concettuale su determinati aspetti. Ciò dà spessore a una pittura che sembra consolidarsi in territorio capitolino, almeno per quanto riguarda un gruppo riunito in varie rassegne da Lorenzo Canova. Qualche nome?
Angelo Bellobono,
Marco Colazzo,
Mauro Di Silvestre,
Adriano Nardi e
Stefania Fabrizi.
Tre quadri comunicano nella sala superiore con rimandi vegetali e paesaggistici. Ironici passaggi di tecniche e un percorso iconico conduce a quella inferiore, dove l’inaspettata installazione di un cubo di cemento svela l’interno di un’abitazione che dialoga con l’intimità dello spazio che lo ospita. Il percorso è meccanico e il rimando di forme e concetti chiudono il cerchio iniziato dalla pittura. Il colloquio bidimensionale nell’”ovvia” esposizione superiore, dove si consuma il rumoroso vernissage, si scontra con la tridimensionalità dell’installazione e il silenzio pacato del luogo che la circonda, costituendo una placida relazione con l’utente, eludendo al plastico stesso la mera fissità scultorea.
Cervelli mira a una minuziosa ricerca del figurativo. Del dettaglio. Spazia da ambientazioni vibranti a monocromie azzerate, immobili, distanti dalla “tipica” comprensione visiva in cui sottili dialoghi fra intricate forme vegetali e mentali s’intersecano in continue dilazioni linguistiche. Ciò è dimostrato senza ombra di dubbio da
Cuore di tenebra, monocromo blu che propone un fitto paesaggio di mangrovie immerse in una profondità cromatica. Qui fuoriesce l’ironia del lavoro. Ovvero gli ostentati romanticismi della cupa atmosfera, l’assurdo titolo e “l’obsoleta” tecnica, resa più esplicita dal puntinismo del monocromo rosso
Puntini puntini n° 2, la cui iconografia descrive l’ampia vegetazione di uno stagno.
L’acqua è il centro del progetto. I lavori appaiono liquidi. Le forme si sciolgono, fondono. Si confondono e confondono. L’una con l’altra creano un magma compatto; assemblano il complesso iconografico a dinamico volume agitato, che richiama le ampie funzioni celebrali. Il liquido è quello amniotico entro cui il feto rimane custodito in gravidanza. Simbolo di protezione e conservazione, da una parte, ma dall’altra violenza, invasione come nel caso di
Chez Victor, in cui in una monocromia blu, gli interni di un’abitazione si abbandonano ad un allagamento che inghiotte piano dopo piano la scala centrale che detta tempo e movimento.
Da qui all’installazione il passaggio è esplicito. La variante è la tridimensionalità. Il cubo si risolve in un’opera site specific che sembra richiamare l’architettura stessa della galleria. Le dimensioni sono ridotte, niente di pretenzioso. Il concetto è sintetizzato almeno quanto un tintinnìo di una goccia dopo l’altra che tuttavia riempie, anche in questo caso, gli interni della contenuta architettura.
Non una mostra di pittura quindi, ma l’estensione di un lavoro pittorico che si chiude in sincopati rimandi neurotici e psicoanalitici di una possibile realtà quotidiana.