A trent’anni dalla morte, Roma ricorda
Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) con una retrospettiva che restituisce uno degli aspetti più intimi dell’artista: il suo rapporto con i maestri del passato. Un museo immaginario il suo, come il titolo stesso preannuncia:
De Chirico e il museo. Un costante e complesso resoconto costituito dalle opere che l’autore ha voluto tenere con sé: quasi cento lavori, tra disegni e dipinti, e un’unica scultura, divisi oggi fra le varie raccolte delle due istituzioni organizzatrici.
Apertamente contrario all’arte contemporanea, sostenitore invece di un perfezionamento continuo della ricerca tecnica e stilistica, il suo percorso artistico non si mosse verso la direzione della copia né in quella dello studio. Nei numerosi dialoghi con il passato troviamo dipinti che cercano di rapire con fugace intuizione l’arte e la tecnica del disegno dei grandi maestri. Tentando di catturare l’essenza del modello con un’imitazione intesa come vera e propria esperienza del museo.
Attraverso l’arte del Rinascimento viene recuperata la limpidezza del colore e la tecnica per la quale i volumi acquistano precisione e luminosità, in una sorta di rispecchiamento ideale o di riflessione estetica che in de Chirico si fonde indissolubilmente con il filone mitologico,
trait d’union fra la sua terra natale e la sua patria d’adozione. C
ome se fosse un bambino che, ripetendo, impara. E ripensando il passato diventa classico a se stesso.
Una mostra dedicata a de Chirico non poteva certamente articolarsi in qualità di mero allestimento storico o antologico. Organizzata in sezioni, sembra piuttosto percorrere il complesso iter artistico del pittore, il quale dà forma al suo linguaggio attraverso una grammatica ricca e ispirata. Il suo rapporto con il museo è stretto, intriso d’intuizione e caratterizzato dalla capacità di interpretare l’opera non come semplice immagine pittorica, ma come principio di una nuova visione rivelatrice. Pittore dei misteri, dell’antico, del mito; massimo cantore di un mondo meta-fisico affascinante, inquietante, straordinario.
Centro propulsore dell’esposizione la sezione autoreferenziale, quella in cui l’artista si auto-ritrae in più opere, ricorrendo spesso a una sorta di raffinato
camouflage; non avulso da frequenti richiami alla sua ben più nota passione teatrale (esemplificata magistralmente anche nelle numerose illustrazioni per
Siepe a Nord Ovest di Bontempelli esposte).
Nelle sale adiacenti, le opere degli artisti che de Chirico – nel suo feroce articolo del 1919 sulla Galleria nazionale d’arte moderna – incluse fra i buoni (pochi) e i cattivi (molti). Allusioni a
Renoir, cenni a
Rubens, titoli che richiamano il passato, riferimenti meno espliciti ma pur sempre presenti. Così
Capriccio veneziano (1951, per la prima volta esposto a Roma), ispirato al
Veronese, sembra dominare l’intera sala centrale, vuoi per le dimensioni, vuoi per la posizione.
Una mostra
sui generis, insomma, scientificamente difficile, come testimonianza dell’ultima fase della metafisica dell’artista e grande storico dell’arte del XX secolo.