Quando un corpo celeste, pianeta o satellite che sia, s’intromette nel fascio di luce che il Sole proietta su un altro corpo, ha inizio l’eclissi. Sovrapposizione astronomica che offusca quest’ultimo e lo investe di un’ombra momentanea, nascondendolo temporaneamente.
L’
Eclissi di
Massimo Pulini (Cesena, 1958) non avviene nell’irraggiungibilità dell’etere, ma su molteplici superfici di materia: rocchetti di legno, dischi in alluminio, ceramica e ardesia sono infatti i piani di lavoro su cui l’artista riscopre e reinterpreta un Seicento perfezionista e vivo, in cui l’Italia e le Fiandre s’incontravano per scambiare le proprie forme d’arte.
Opere di
Tiziano e
Velázquez, ma anche di
Memling e
Bosch prendono corpo sulle superfici più varie, incontrandosi come per
Il sogno di Diego (1983), in cui il legno di una vecchia ruota fa da “tela” a oli levigati e uniformi, quasi a rendere la doppia citazione pittorica secentesca una proiezione a colori ravvicinata. La mostra gioca sulla diversità dei materiali e sfila l’antologica ricerca di Pulini, tralasciando un ordine cronologico d’appartenenza, per mostrare al contrario una vastità produttiva che si muove dagli anni ’80 fino ai giorni nostri.
Incisioni su vetro o plexiglas di figure mitiche e oli bianchi di fuggevoli contorni umani ricamano una trama sottile sulla circolarità di materiali diversi e costellano, all’interno di un nuovo “sistema planetario”, la scrittura personale di Pulini, dall’arte moderna a quella contemporanea.
Il tema di una duplice figurazione che si muove dalla sovrapposizione
gestuale del segno pittorico sino a quella manuale dell’oggetto che lo contiene viene riproposta dall’artista stesso al piano inferiore. Oltre cento negativi in vetro, graffiati da una pittura bianca, raccontano la ricerca storico-artistica di Pulini sulle fotografie dell’Archivio Villani di Bologna. Oggetti d’arte ma anche di vita quotidiana, persone e architetture o sculture alternano i grigiori della loro stampa dietro a rappresentazioni di poliedri geometrici leonardeschi o nudi neoclassici bianchi.
Le lastre già impresse d’arte documentaristica sono esasperate da un contenuto aggiunto, quello dipinto da Pulini, divenendo duplice testimonianza storica: la fotografia che ricorda il passato e il segno che interpreta il presente. Non c’è colore e non ci sarà fino alla fine degli anni ‘90, quando gli smalti industriali sprigioneranno macchie cromatiche su volti femminili e maschili, e l’uomo diverrà così un campo di studio termografico, sostituendosi ai disegni bianconeri su radiografie in negativo.
È dunque il “penultimo” Pulini quello che vediamo, quello meno contemporaneo eppure sempre attuale. L’esposizione racconta un’antologica sovrapposizione del doppio artistico, figurativo e materico, reinterpretativo e unico, mostrando insieme il carattere storico-critico di Pulini, artista e ricercatore di una “
pittura saggistica”, scriveva Maurizio Calvesi nel 1997, “
definita un’autentica ‘ars memoriae’, non come arte del ricordare, bensì come memoria che tra delicatezza e potenza richiama a sé l’arte”.