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Confesso che sempre meno mi interessa conoscere, sapere e capire il mondo. Preferisco affidarmi alla verità, alle contraddizioni, alle infinite controverse ingiunzioni della corporeità”.
Piero Guccione (Scicli, Ragusa, 1935) esordì proprio a Roma nel 1960. Cinquant’anni dopo, è Roma a dedicargli una retrospettiva antologica, che ne racconta la vita attraverso le opere. Oltre cento lavori rendono omaggio a uno dei più illustri e originali esponenti dell’arte figurativa del Novecento. Un poeta bucolico, un artista “naturale”.
Ed è proprio la natura la sua fonte ispiratrice. Mare e terra, cielo e nuvole, Sole e Luna. Ritrae la natura con occhio moderno e cuore romantico: le sue opere sembrano esternazioni di istanze goethiane o leopardiane, pervase da una forte tendenza all’infinito e da una ricerca ossessiva del sublime. L’occhio non è più semplice strumento, ma vera e propria mentalità, sensibilità che è parte integrante di un pensiero classico e attuale allo stesso tempo. Nella corrispondenza tra esteriore e interiore vige un ritorno alla poesia delle cose.
Nei primi lavori, come
Giardino sul muro giallo (1965), gli oggetti sono ben definiti e riconoscibili. Spazialmente autorevoli. Poi tutto inizia a confondersi e a compenetrarsi, non solo pittoricamente. La marina è sicuramente il soggetto che esprime meglio il senso dell’indeterminato, insieme all’esotismo luminoso dell’ibisco e alla Luna, protagonista assoluta del “suo” romanticismo (
Linea azzurra, 2006;
Cielo e mare, 2008). Poche pennellate incisive. Così la vita stessa si materializza attraverso il fiore di ibisco (
Studio di fiori, vita e morte dell’ibisco, 1978).
La presenza diviene parvenza, in un gioco di stile che solo la serie dei d’après, a cui è dedicata la sezione superiore della mostra, sa esprimere. La potenza evocativa suggerita dai colori densi e luminosi parla di natura e progresso industriale, come se la prima fosse vittima predestinata della seconda. Nelle sue opere, la luce è immacolato barbaglio di fusione e l’ombra è brivido fugace. Una bellezza che si trasforma quasi in agonia, come in un testo romantico nel quale l’atmosfera si fonde con l’amore per le forme classiche.
Nelle tele del ritorno a Scicli l’idillio è sempre più forte, come in
Autoritratto nel paesaggio (1971), dove l’artista pare dissolversi nell’indefinita distesa verde. Nelle tele regna il senso eccelso dell’assoluto come contemplazione, esaltata da una tecnica inedita: le linee, logiche espressioni di separazione, diventano occasione di sfumatura più che di separazione. Mirabili tracce romantiche conducono alla vera e propria estasi, perché ciò che l’occhio percepisce diviene subitamente contemplazione visiva.
Gli ultimi lavori sono sempre più pervasi di seduzione romantica e ritraggono paesaggi siculi intrisi di silenzio e sospensioni suggestive. Il punto di vista varia, si abbassa, come a volerci far conoscere il mondo da un altro livello. Un silenzio contemplativo è il massimo appagamento possibile. La contemplazione della contemplazione, senza un prima e un dopo.