Beatrice Meoni (Siena; vive a Siena e Sarzana, Sp) è un’artista poliglotta, che parla il linguaggio dell’arte ad ampio respiro. Pittura, installazioni, video, fotografia, spaziando dalla letteratura alla musica, per far convogliare tutto nella pura sensibilità dell’esperienza.
Alla sua prima personale romana, l’artista toscana fa filtrare ogni sua creazione dal velo del tempo, della memoria, da una concezione di identità precaria, in continua evoluzione e alterazione. In passato, lo ha fatto servendosi di materiali come la carta o la garza, materiali che sanciscono la mortalità dell’opera, che la rendono soggetta allo scorrere del logorante tempo. Per lei “
l’opera deve avere una vita propria, una vita che ha un inizio e anche un termine”, per poi ricominciare a vivere, magari sotto altre spoglie, con lievi mutamenti che fanno porre davanti a una scelta di direzione.
La mostra al Traghetto manifesta appieno lo stato di questa scelta. Ogni giorno della settimana è iconograficamente rappresentato, secondo il personale “sentire” dell’artista. Il surplus di un’immagine dopo la domenica manifesta tale possibilità di cambiamento di rotta. “
La ripresa è sia il tornare di qualcosa che si è già manifestato in passato, sia il proporsi rinnovato di un’occasione, di una decisione da ri-prendere”, scrive Sandra Burchi nel testo introduttivo.
Meoni sa giocare con la memoria onirica, con quella dimensione limbica tra il vissuto e l’immaginario che fa scorgere dietro al velo trasparente delle sue opere un radicato substrato di significato.
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Una settimana e un giorno si serve del mezzo fotografico per manifestare la sfumatura impalpabile dell’arte. Non sono semplici fotografie quelle che usa; rappresentano, invece, gli scarti iconografici della gente comune, tenuti con la cura di un tesoro prezioso. Con l’aiuto, poi, della “sorella” pittura ridona loro vita, una seconda esistenza forse, o magari semplicemente un modo alternativo di ri-prendere a respirare. Una ri-contestualizzazione che li rende autonomi dal loro “essere stati”.
Le foto, in tal modo, fungono da mero incipit. Non è più solo una questione di noema, come teorizzava Roland Barthes. Gli scatti altrui non sono più tali, o comunque non rappresentano più unicamente quello. I prolungamenti pittorici, infatti, risultano abbattere i confini fissi del tempo, per far strabordare l’immaginazione dello spettatore nell’infinito territorio dell’inconscio.
Beatrice Meoni lascia trasparire il retrogusto inafferrabile del vissuto, ma sempre secondo un certo ordine e una certa sua lettura. A tal proposito, accanto alle immagini installa pannelli segnati da linee di diverso spessore e verso, per reinterpretare l’essenza delle immagini secondo un suo ritmo stilizzato e minimale, una traccia lineare.
L’artista toscana mantiene costante, anche in questa mostra, il suo iter di ricerca all’interno della “vulnerabilità dell’arte”. Una delicatezza dettata dal tempo e dalla suo sensibile sguardo.