Per alcuni
Suspended è una mostra inquietante, per altri è venata d’ironia, finanche rilassante, con quei rimandi sonori e visivi all’acqua, al liquido amniotico. L’approccio dipende, ancora una volta, dallo stato d’animo di chi guarda. Certo è che, come preannunciano all’inizio del percorso le impronte di piedi bloccate in un ipotetico cubetto di ghiaccio, l’immobilità è un dato di fatto. Un’atmosfera da astronave alla deriva.
Claudio Martinez (Roma, 1968) sceglie una parola inglese per riassumere, a partire dal titolo, la condizione di sospensione, generica e neutra, che avvolge questi suoi ultimi lavori. Condizione che, componente patologica inclusa, dovrebbe essere temporanea, perché aperta a possibili superamenti, ma che spesso rotola verso la cronicizzazione. Proprio come accade in questa mostra, dove “
il cambiamento non è previsto”, come sentenzia l’artista.
Le opere -immagini fotografiche, di cui alcune risalgono al 2002, e in movimento bloccate all’interno di barattoli di vetro, lenti, uova, tubi- sono una sorta di evoluzione di quei fossili contemporanei a cui alludeva
Tired (1999), una delle prime mostre in cui l’autore sperimentava le geniali possibilità della resina per superare i limiti linguistici e dimensionali della fotografia. Fotografie che diventano altro: sculture, installazioni.
Martinez è fotografo, ma i suoi riferimenti culturali spaziano da Marquez a Wenders, Osvaldo Soriano, Ry Cooder, Chet Beker, Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, i Monty Python, Terry Gillia. Parte dalla fotografia per tornare alla fotografia. Ama il reportage e cita autori come
Salgado e
James Natchwey; egli stesso per un certo periodo si è dedicato a questo genere, finché non si è radicata la consapevolezza che intervenire sulla realtà attraverso la fotografia era solo un’illusione, parallelamente alla perdita di fiducia nell’informazione come strumento all’uopo.
La componente luce, fondamentale per la costruzione della fotografia, lo è anche per questi suoi lavori, tutti illuminati. Anche la scelta della resina rimanda alla magia del momento in cui, nella camera oscura, l’immagine fotografica prende forma nel liquido della bacinella. Il bagno di resina, quindi, non è che un modo per ricreare l’idea di quella formula alchemica. Quanto ai corpi ibernati, tutti completamente nudi perché interpretati come forme poetiche, non certo in chiave erotica (le foto sono state appositamente scattate su pellicola a raggi infrarossi bianco e nero) sono prevalentemente femminili, con l’eccezione dell’uomo del video, il danzatore di butoh Alessandro Pintus.
Una scelta che per l’artista va al di là della componente puramente formale: “
Penso che tanto la donna quanto l’uomo siano stati ‘distratti’ dall’enorme quantità di illusioni e bisogni che da marginali si sono spostati sempre di più verso il centro dei desideri, ma sento che la donna sia quella che da ciò ne ha perduto più forza, si è messa in stand-by, spesso pretende dei riconoscimenti come diritti dal di fuori, ma ha smesso di lottare”.