Percepisce, assimila, confronta, giudica. Poi, al pari di
Goethe, appunta sul proprio taccuino di viaggio immagini e parole, costruendo
un’opera letteraria, oltre che un caposaldo della fotografia contemporanea.
Ma, all’opposto di un viaggiatore romantico, le sue immagini
non documentano alcuna soggezione al cospetto dell’antichità classica. Al
contrario, appaiono una vera sfida alla discrezione e alla misura. Sono la più
cruda rappresentazione di una società che sta abbandonando i propri secolari
modelli, per attraversare la soglia di un impersonale concetto di modernità e
di sviluppo.
È questa la genesi della formidabile esposizione ospitata ai
Mercati di Traiano: gigantografie di una Roma felliniana corredate da ampie
didascalie dell’autore e citazioni letterarie. Il suo centro immaginario è in
un lavoro che fu pubblicato per la prima volta nel 1959 in inglese e in
francese e che è stato riedito – nel cinquantenario – da Contrasto in una
lussuosa versione ampliata.
Cos’era quel libro se non il secondo azzardo di
William
Klein (New York, 1928; vive a Parigi)? A quell’epoca aveva appena
raccontato New York, vista da un ragazzo nato in uno
slum, vittima dell’emarginazione e del
razzismo antisemita. Dal rivoluzionario taglio del suo lavoro erano scaturiti
tali scalpori in patria e consensi in Europa da consegnarlo alla ribalta
internazionale con il prestigioso Premio Nadar. A 28 anni aveva già bruciato le
tappe: pittore a Parigi, dove aveva risieduto dal ‘48 al ‘54, fotografo
acclamato in tutto il mondo, decise di affrontare anche il mondo del cinema.
Spavaldamente si presenta un giorno a
Fellini: “
Ho appena completato un
libro su New York e mi piacerebbe mostrartelo”, annuncia. Dall’incontro scaturisce una spontanea
empatia e la proposta di assistente alla regia in
Le notti di Cabiria.
Ma in realtà Klein non apparirà mai nel casting del film,
perché – giunto a Roma e nell’attesa dell’avvio delle riprese – diventerà
presto ostaggio dell’idea travolgente di replicare a Roma la sua esperienza
newyorchese, esponendola però alle suggestioni della geniale cerchia di
Fellini, tra cui un ancora acerbo
Pasolini. Con lui si accompagna spesso in una Roma che per
Klein è tutta da decifrare. Girovaga con Moravia, Flaiano, Feltrinelli, o con
lo stesso Fellini, fissando immagini di strada attraverso i cristalli di una
Leica che confessa di non sapere neanche adoperare bene. Non importa
come, ma
cosa l’apparecchio è in grado di
creare: “
Può sorprenderci, bisogna aiutarlo”, afferma.
La sua impostazione è opposta a quella di
Henri
Cartier-Bresson ed
Elliott Erwitt,
entrambi protagonisti recenti di sensazionali mostre sul tema capitolino,
sempre per Contrasto. Il linguaggio di Klein è mutuato dalla fotografia di cronaca
dei rotocalchi, dove ogni grido e stonatura è consentito: grana esasperata,
taglio senza remore dell’immagine, contrasto esagerato. Tutto ciò che fa
inorridire Cartier-Bresson entra nelle immagini di Roma, come in quelle di New
York e più tardi di Mosca e Tokyo.
Opere che scardinano i concetti di obiettività ed
equidistanza, costituendosi quali riferimenti unici, in grado di suggestionare
profondamente l’intera evoluzione della fotografia sociale.