La carne di
Franko B. (Milano, 1960; vive a Londra) appartiene al passato. La carne come presenza: fisica e scorretta, piena e perturbante, quella di un giovane milanese trapiantato a Londra e artista nato nei fetish club. Oramai tutto si fa per immagini, tutto filtra attraverso uno schermo, un obiettivo: informazioni, dati, bit. Franko B. si nega a tutto ciò: se il video come la fotografia sono sempre stati i testimoni perfetti delle sue performance, questa volta, come già accadde a Trieste e a Milano qualche tempo fa, è una tela dipinta, di grandi dimensioni, la migliore superficie significante.
Francesca Alfano Miglietti riferiva l’uso che l’artista faceva del proprio corpo come fosse un testo, e la capacità di mostrare l’interdetto, l’oltre, il negativo. Eppure il corpo non viene del tutto abbandonato: se le lacerazioni a cui si sottoponeva, e il sangue che ne sgorgava, non appaiono più per presa diretta di fronte a un pubblico esterrefatto, è per altri canali che si verifica l’impatto scomodo dell’opera. Attraverso l’assenza, l’evocazione della presenza.
La galleria LipanjePuntin è un unico spazio asettico: pareti regolari ospitano i quadri. La pianta è resa dinamica dall’arco centrale che testimonia quello che era un probabile muro divisorio e che ora cadenza i vuoti. L’equivalenza delle dimensioni dei dieci
Black Painting portano all’esasperazione questo equilibrio illusorio. Sotto il bitume cromatico con cui ha ricoperto le tele si nascondono i simboli del potere: logiche imperialiste, totalitarismi, arroganze finanziarie, regimi assolutisti; si percepisce il richiamo all’ebbrezza del potere che redarguisce e causa reclusione.
Franko B. adotta i segni di un figurativismo espanso che dal corpo come testo ripercorre la storia dell’arte e ritorna al pennello che dipinge su tela.
Il nero soffoca il significato, lo annulla della sua individualità, così come il gesso faceva del suo corpo singolare uno sociale, portatore di un significato valido per l’uomo, colui che subisce sotto innumerevoli dimensioni l’esperienza della marginalità e della limitazione.
I dipinti sono disposti circolarmente alla complementare opera della giostra, installazione in alluminio cromato oro, che meglio coglie il fattore “assenza” prima citato. Il corpo e il gesto di Franko B. passano attraverso la stasi degli elementi: dalla giostra in quiete all’apparente equivalenza dei quadri monocromi. La giostra immobile all’interno di una sala suggestiona la mente che la colloca in uno spazio aperto, la immagina in moto, la rappresenta funzionante, la riconduce alla dimensione dell’infanzia e del gioco.
La memoria del dolore diventa parte di questa mostra e il richiamo del titolo,
Golden Age, si apre a questa interpretazione. C’è un’ironia tagliente che fa slittare i significati della parola sulla materialità degli oggetti in mostra. L’età dorata è quella di Re Mida mai pentito, della cupidigia di alcuni e della sofferenza dei tanti. E quei simboli sono lì per ricordarcelo.