È il più piccolo dei quattro musei che fanno capo alla Gnam. Soffre di un posizione che non ne favorisce la crescita e ha il grande merito di essere il “referente istituzionale” per la promozione delle arti decorative, del costume e della moda. Quindi, lo spettro d’azione del Museo Boncompagni Ludovisi è attuale, trasversale; e la donazione della principessa Blanceflor assicura una presenza scenica di tutto rispetto.
In questa scenografia s’inserisce perfettamente
Bandiere, quattro elementi in vetro di Murano realizzati da
Andrea Zilio, che riportano alla mente coltelli ed elmetti dell’esercito prussiano, piuttosto che vessilli di un nazionalismo che è ben lontano dai sentimenti di fine Ottocento che videro i migliori momenti di villa Boncompagni. Anche per questo motivo le bandiere non sono indicative di alcuno Stato. Trasparenti, lasciano spazio a qualsiasi interpretazione e schieramento, condensando in sé un senso di libertà e decorazione.
Questi ultimi sono “riflessi” in tutta la produzione di
Tristano di Robilant (Londra, 1964), autodidatta dalla formazione italo-americana, alla quale si aggiungono Arts and Crafts e Concettualismo.
All’interno delle tre stanze a disposizione dell’artista, troviamo oggetti dalle più disparate forme, misure e colori, ma che hanno in comune l’essere espressione di una visione delle cose senza stereotipi e scale gerarchiche. Come non notare infatti il particolare che, giusto al di sotto del ritratto di un cardinale, è stato scelto di posizionare
Odalisca, composizione in ceramica invetriata dal sensuale movimento ondulatorio? Come non rendersi conto, anche per un semplice errore di lettura, che
Building for Us può essere una rappresentazione primordiale della doppia natura umana (maschile e femminile), così come può trasformarsi in un riferimento alle
Twin Towers? Come non cogliere il rimando di
Searching for rebellion a un piccolo carro armato giocattolo, a una classica presenza nella toilette e a un’immagine fallica? Il mondo e le cose rappresentate dall’artista hanno però una tale leggerezza, ironia e qualità che persino le tematiche e le scene più ostili perdono forza, in favore di una stupefazione primordiale che ci coglie davanti a opere d’apparente semplicità e dal dettaglio curato.
Se è vero che il diavolo sta nei particolari, allora in questi lavori c’è qualcosa di mefistofelico. Non che si cerchi la forma perfetta, quella di linee definite ed equilibrio assoluto, ma i colori usati dall’artista, il numero delle opere presenti e la loro collocazione negli spazi espositivi sono elementi che ne segnano fortemente l’operato. Basti osservare
Luce, in cui una chiocciola è posta al di sopra di un cubo bianco con un unico inserto rosso: la ceramica invetriata della lumaca splende grazie all’interazione di tutti gli altri elementi. Se ciò non bastasse, è anche immediato il passaggio da questa figura al paesaggio che le si pone alle spalle, come se le idee e le metodologie di
Sol LeWitt trovassero la propria magnifica base nelle elaborazioni di
William Morris. In un
continuum rovesciato che Tristano di Robilant sintetizza ed esalta.