Giorgia Fiorio (Torino, 1967; vive a Venezia e Parigi) vuole entrare nell’evidenza del mistero. È ostinata nel conseguimento di quest’obiettivo, tanto da dedicargli nove anni della propria vita. Ha viaggiato in trenta Paesi (attraverso 38 missioni) sparsi su tutti i continenti, scattando prevalentemente con la Hasselblad 6×6: centinaia e centinaia di immagini in pellicola, che ha sviluppato tradizionalmente e stampato ai sali d’argento.
Il dono è, quindi, un work in progress, ideale continuazione del precedente ed enciclopedico
Uomini (2003).
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Sono andata alla ricerca di qualcosa che per me era inspiegabile. Queste immagini sono un orizzonte d’interrogativi. Ogni fotografia è un interrogativo che rimane aperto”, spiega l’autrice. Le risposte non sono mai nelle immagini fotografiche, ma negli occhi di chi guarda. Cento stampe di questo lavoro sono state acquisite dall’Istituto Nazionale per la Grafica, che per l’occasione ospita la sua personale in contemporanea con la mostra della Maison Européenne de la Photographie di Parigi e con l’uscita del bel volume edito da Peliti.
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Il corpo è come il testo, che il fotografo cerca di scoprire e decodificare”, afferma il curatore Gabriel Bauret. La dimensione fisica è, quindi, la mappatura di una spiritualità silenziosa, di mistero e rito.
Un gruppo di donne è riunito per celebrare il Lag Baomer in Israele; un altro, sulla Cordigliera andina peruviana, è in cammino lungo il pellegrinaggio del Saluto al Sole. In Etiopia, l’obiettivo inquadra le donne: ad Axum la più anziana sta imprimendo il segno della croce copta sulla fronte della più giovane; poi c’è la densità commovente che avvolge la figura femminile vestita di bianco, durante la veglia di preghiera a Harat. Per il resto sono i corpi maschili, spogliati o vestiti, a interpretare il sacro. Traspare la forza, l’energia, laddove sono l’intimità e la complicità a bilanciare il femminile.
L’utilizzo del bianco e nero fa parte di una scelta consapevole: “
Vedo in bianco e nero, in luce e ombra; il colore mi distrae. È come scrivere in versi piuttosto che in prosa. Si utilizzano meno parole”.
Ogni immagine ha una sua storia a sé. La fotografa ricorda, in particolare, l’emozione provata a Konya, dove Rumi – massimo poeta sufi – nel XIII secolo fondò la setta dei dervisci rotanti: “
Mi trovavo in un battistero scoperchiato dodecagonale. I dervisci iniziarono a girare. Ero così presa dalla scena che non riuscivo a fotografare”. Poi, però, come per qualsiasi altra immagine, Giorgia Fiorio ha preso le distanze dal ricordo: “
Come mi sono staccata da tutte le altre immagini in cui ci sono dietro giorni di cammino, freddo pazzesco, oppure caldo, ragni ecc… C’è sempre un momento in cui l’immagine si cristallizza”.
Fotografare è una grande responsabilità per l’artista, ed è preceduta e seguita da un lavoro molto complesso di preparazione e post-produzione: “
Scrivo molte note durante tutto il corso del lavoro, dai luoghi alle dinamiche dei rituali. Per ‘Il dono’, in particolare, ho lavorato molto insieme all’antropologa Vera Mantengoli. Nel libro, infatti, ci sono schede di riferimento con l’analisi di ogni rituale”.