Protagoniste della doppia personale alla Galleria Traghetto,
Silvia Levenson (Buenos Aires, 1957; vive a Vigevano, Pavia) ed
Elena Monzo (Orzinovi, Brescia, 1981; vive a Brescia e Milano) riflettono su tematiche legate alle strategie di sopravvivenza, tra ricordi affioranti, sensi di colpa e una meta difficile da raggiungere: il perdono.
Io ti perdono è il titolo della mostra, dichiarato omaggio a Elisabetta Bucciarelli di cui, recentemente, è uscito l’omonimo giallo. Un’amicizia nata qualche anno fa, quella fra l’artista argentina e la scrittrice di noir che ama l’arte contemporanea: “
Nel primo libro, ‘Happy Hour’, una mia opera era addirittura il corpo del reato”, afferma Levenson. “
L’ultimo giallo, tratto da un fatto di cronaca nera sulla violenza sui bambini, indaga su cosa significhi veramente perdonare, se siamo pronti al perdono, oppure se sia una strategia di vita che ci fa sentire meglio”.
Monzo ama la tecnica dell’incisione, che personalizza dando – nella serie
Scoppiano angeli come popcorn (2009) – unicità al segno, con la complicità di colori accattivanti (verde, arancione, magenta…) e inserzioni di piume e lustrini.
Le sue stampe sono popolate di figure femminili aggressivo-trasgressive, alle prese con la ricerca della propria individualità. Un linguaggio che ricorda l’immediatezza del fumetto, in cui si mescola anche una certa ambiguità iconografica dell’Espressionismo.
Di
Rewind scrive: “
Le persone fanno capriole indietro nel tempo, leggere come piume, ripercorrono ricordi, come razzi fumano dal nostro cervello, sono leggeri ed evaporano verso l’alto, bombe a mano di vetro. Quando si ha la consapevolezza che tutto è effimero, puoi perdonare anche il tuo peggior nemico, te stesso… a volte”.
Levenson, invece, parte da lontano, dal mondo dell’infanzia, contenitore inesauribile delle problematiche che l’individuo si trascina in età adulta. Non a caso l’opera centrale della mostra è l’installazione
Perdono, oblio: istruzione per l’uso (2005/2009), in cui una sediolina in legno (con il cuscino di vetro) è al centro di un tappeto circolare di filo spinato. Per poter uscire da quella dimensione, l’ipotetico bambino/a dovrà fare un salto. Il perdono, per lei, è legato ai segreti dell’infanzia: “
Per questo ho usato giochi di bambini su cui ho inciso e poi dipinto frasi come ‘di questo non si parla’ o ‘sono una brava bambina?’, ‘è un segreto’”.
Approfondendo il tema, non è sfuggita all’artista la tendenza dilagante del bisogno di apparire felici. Da qui il legame con la “cosmetica della felicità”, rappresentata dalle molteplici bottigliette di vetro (dalla forma ambigua di biberon-dosatori contagocce), alcune delle quali recanti le scritte oblio, memoria, perdono, accettazione…
Da quando, negli anni ’90, ha scoperto le potenzialità espressive del vetro (“
Nelle nostre case usiamo il vetro per isolarci con le porte e le finestre, oppure per bere, ma sappiamo anche che può essere tagliente e pericoloso. Può farci del male”), Levenson lo utilizza realizzando ogni pezzo con una procedura che prevede uno stampo, la gomma siliconica e la cera persa. “
A differenza del vetro soffiato, questa tecnica è molto più lenta e legata alla memoria, per cui il risultato è un qualcosa di pieno, in cui è possibile vedere le bollicine o le irregolarità che lo rendono anche più misterioso”.