Trieste è anche il titolo di questa mostra d’arte contemporanea. Non solo. I riferimenti, le contaminazioni, sono psicologiche quanto letterarie quando Jay Heikes (Princeton, 1975), in biblioteca, s’imbatte nel libro della scrittrice inglese Jan Morris, Trieste and the Meaning of Nowhere. E’ proprio Heikes, già protagonista di due personali nella galleria romana (Eroding Rainbow, nel 2009, e The Material Mine, nel 2011), la forza motrice di questo nuovo progetto, frutto di un’affinità elettiva (oltre che di una conoscenza personale, talvolta di un’amicizia profonda) con gli altri quattro artisti nordamericani che, come lui, sono affascinati dalla materia, dalle possibilità creative e d’indagine conoscitiva.
Secondo una poetica autonoma le opere – al confine tra pittura, collage, scultura – che gli artisti hanno realizzato appositamente per questa collettiva, sembrano approdare ad una sorta di mimesis che lascia spazio all’imprevisto, in cui i codici semantici appaiono se non ribaltati certamente aperti a letture multiple.
Che sia una pala d’altare, la rappresentazione grafica della superficie terrestre, una pittura rupestre primitiva (che ricorda nella forma anche i documenti su pergamena), un oggetto vuoto che potrebbe essere una scatola o un cassetto all’insù, oppure un crostaceo di epoca romana, lo spettatore si trova a formulare ipotesi con il desiderio inconscio di stabilire un contatto fisico con l’opera, proprio per capirne la natura, per sfiorarne la consistenza materica.
Anche la scrittura entra nei lavori, attraverso scritte di giornali affioranti dalla stratificazione-chassis nel “cave painting” Lemon Tears di Jay Heikes, oppure con carattere più intimo nelle interpretazioni delle pale d’altare proposte da Jessica Jackson Hutchins (Pirate and Putti e Free) con l’impiego di materiali e tecniche miste su tela (cartapesta, tessuti, acrilici, pastelli, pittura spray, ecc.).
Direttamente incisa nella scultura cava, poi, la scritta “Mare Nostrum” – Broken Claw (Mare Nostrum) di Karthik Pandian è un granchio di bronzo, immobile su una sorta di plinto rosa salmone, quadrettato come le carte degli archeologi – è memoria di una suggestione che è un ulteriore invito a trovare connessioni con la storia, l’arte antica e l’archeologia per sconfinare nella contemporaneità.
Quanto alla materia che cambia in base alle condizioni climatiche – è il caso del cor-ten usato da Matthew Day Jackson in Dymaxicon Map Remix (after Jay Heikes) come supporto per la sua stampa ad olio della parte di planisfero bidimensionale – rientra nella logica di incertezza, enigma e instabilità insita nel concept stesso della mostra.
E’ proprio il caso di dire che l’apparenza inganna, osservando quegli oggetti “vuoti” che sembrano metallici e che, invece, sono meticolosamente realizzati da Shirreff con un particolare gesso pigmentato. Il vuoto, l’ambiguità della materia costringono, anche in questo caso, a mettere da parte ogni certezza.
mostra visitata il 3 aprile 2012
dal 31 marzo al 26 maggio 2012
Trieste
Matthew Day Jackson, Jessica Jackson Hutchins, Jay Heikes, Karthik Pandian, Erin Shirreff
Federica Schiavo Gallery
Piazza Montevecchio 16 (00186) Roma
Orari: martedì – sabato, 12-19 (lunedì su appuntamento)
Info: +39 06 45432028 –info@federicaschiavo.com– www.federicaschiavo.com
[exibart]
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