Non si può stabilire a priori quale sia il contenente e quale il contenuto nell’allestimento che l’artista catalano ha progettato per la galleria di Francesco Nucci. E come di rado accade il problema ingombrante dello spazio espositivo e della sua architettura si sottomette a quello dell’immagine, dell’elemento immateriale che cerca il riconoscimento e la presenza dello spettatore.
“La scultura” dice Jaume Plensa “è la possibilità, attraverso un elemento fisico, di parlare dell’intoccabilità delle cose. Io ho parlato molto del Macbeth di Shakespeare e in questo senso lui ammazza un re che è un corpo fisico, ma alla fine capisce che non ha ammazzato un re, ma ha ammazzato la possibilità di dormire. Allora” continua l’artista “questa è scultura allo stato puro” . Sempre in catalogo, rispondendo alla domanda di Lorenzo Benedetti sull’intervento dell’artista nello spazio pubblico, parla dell’architetto come di un interlocutore, mentre a se stesso assegna il compito di lavorare sul monumento, con un’iniezione di vita che rigeneri il corpo morto.
Ne Il suono del sangue parla la stessa lingua -la cui ideazione si colloca in una mostra del ’98 al Kestner Gesellschaft di Hannover- questo pensiero intenso sulla speranza artistica sembra scoprire il suo circuito primario nei sensi e nella genesi del linguaggio. Prima però Plensa si preoccupa di risolvere, in positivo, la questione del rapporto con un altro tipo di sapere, quello medico-scientifico, che viene presentato con un candore impareggiabile nella sua natura di rappresentazione necessariamente imperfetta e immaginifica.
La macchina dei doppler collocata all’ingresso è uno stupendo rovesciamento dei modellini anatomici che lasciano vedere gli organi e le arterie (l’angelo sulla copertina di In utero dei Nirvana , per capirsi), a loro volta macabro e grottesco ricordo di pratiche d’indagine sul corpo vivo; l’incisione chirurgica qui lascia il posto all’ascolto del sangue che scorre, e alla doppia trasformazione in analisi fisica e in fantasia (con l’evidenza a cui ci si arrende affascinati dell’invisibilità di alcune cose). La scoperta che dentro l’uomo c’è un rumore, identico per ciascuno in quanto pre – verbale, è il pretesto per parlare di un’immagine che sorge non per una corrispondente esperienza sensibile, ma per mancanza e desiderio: come si può infatti pensare il silenzio e come nasce nella mente dell’uomo un pensiero che prima non c’era? Che rapporto c’è tra il formarsi di un’immagine e il formarsi della sua parola?
Varcando la seconda porta, si entra nella luce rossa e fumosa di un labirinto, dove il suono vorticoso e informe del sangue guida il passo fino all’ultima parete, su cui si intravedono in continua dissolvenza lettere di alfabeti diversi (giapponese, greco, arabo, ebreo e cinese: segni, ancora incomprensibili e già belli). La lingua comune di cui si parla nel titolo allude forse a quelle “particelle” immesse nell’aria dal corpo dell’uomo perché qualcun altro le raccolga e ne faccia immagine, pensiero, verbo.
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