Sulle pareti spoglie, una grande testa in alluminio e cartastraccia, alcune stoffe, rari disegni. In fondo, su un banco di lavoro, matite colorate, pennelli, vasetti, evidenziatori, trucchi. Al centro, un carrello dove fioriscono capelli sintetici di vari tagli e colori. L’artista ha il volto occultato da una maschera di carta che le impedisce di vedere. Segue le indicazioni di uno degli astanti, interagendo con lui nella creazione di un ritratto che alla fine, completo di parrucca, verrà ripreso da una polaroid. Una performance, quella che
Raphäelle De Groot (Montréal, 1974) presenta in galleria, sulla scia della ricerca già iniziata con il recente
Portraits de clients. Ritratti, questi, realizzati sulla base dei dati anagrafici di documenti d’identità abbandonati in una vecchia banca di Ottawa.
I progetti dell’artista canadese si fondano sulla raccolta di dati e sulla riorganizzazione in archivi di materiali già esistenti, “tracce” che hanno in comune l’appartenenza a una sfera di oggetti solitamente trascurata. È l’azione stessa di estrapolare queste tracce dall’abituale contesto a conferire loro una diversa prospettiva. Ecco, allora, che l’invisibile diventa improvvisamente definito, e, come afferma l’artista,
“i particolari si fanno immensi rivelando l’infinito e l’impersonale, mostra una prossimità condivisibile. Un universo fuori campo, trattenuto o in attesa, fra conscio e inconscio”.
Un altro aspetto del lavoro di De Groot, qui riproposto, consiste nell’elaborazione di atti performativi che concentrano lo sguardo dello spettatore sul ruolo dell’artista alle prese con il processo creativo (
Drawing Session, 2004 e
En exercice, 2006). Attraverso l’utilizzo di misure costrittive e/o disagevoli -soppressione della vista, bizzarre
mise handicappanti, annullamento del volto- De Groot si sforza di operare in uno stato di “non padronanza”, sperimentando i propri limiti e accettando il conseguente senso di spoliazione e di perdita
“dei punti di riferimento, del controllo, dell’immagine di sé”.
Concettualmente poi, la maschera utilizzata durante questa azione -basti pensare alle maschere rituali o a quelle del teatro greco- ha in sé il potere di trasformare chi la indossa, rendendolo ricettivo a un mondo altro. La temporanea cecità, menomazione in grado fin nelle antiche culture di avvicinare al divino, consente di accedere a livelli di conoscenza più alta.
Il buio come fonte di luminosità interiore rimanda allora a una condizione esistenziale, schermo dietro cui l’individuo nasconde la natura del proprio essere che è compito dell’artista contribuire a svelare. Ciò significherebbe rompere con quel comodo, allineato, conciliante modo di mostrarsi in cui ci si rifugia per non pensare, schiacciati dalla quotidianità. Che dissimula, imbroglia, distrae, impedendo una corretta comunicazione tra sé e gli altri.
Visualizza commenti
figa lei, figa la mostra
le italiane invece se la tirano