Non è la prima volta che Silvia Levenson (Buenos Aires, 1957) “abbassa lo sguardo ad altezza di bambino”, per una lucida e graffiante analisi delle ferite che portiamo dall’infanzia. Isola esteriore di felicità, troppo spesso segnata da inquietudini, senso di inadeguatezza, piccole crudeltà quotidiane.
La novità sta nel recupero da parte dell’artista della dimensione del corpo, del tutto assente nella passata produzione. Cosa che fa esponendosi in prima persona, con fotografie tratte dall’album di famiglia, abbinate con efficacia a lavori già visti.
Così l’installazione Sit down, please! -fila di minuscole sedie in ferro e gesso, comode solo all’apparenza-, attraversa uno spazio vuoto che alle pareti ospita tre grandi stampe fotografiche, appena sgranate. Ne risulta un’atmosfera densa di ricordi. Aspettative di un tempo irrecuperabile, in bilico fra presente e passato, partecipazione e assenza. In Figlia dei fiori una Levenson bambina gattona verso un cagnolino, mentre in Ballerine sfoggia insieme alla sorella Bibi un vezzoso tutù. In Piccole Cenerentole a Plaza de Mayo, Silvia piccina, sempre insieme alla sorella, si diverte a giocare nell’emblematica piazza che tra gli anni Settanta e Ottanta fu teatro delle manifestazioni contro il regime e dei cortei della madri dei desaparecidos. Completano l’opera le famose scarpette con “spuntoncino” applicate sulla stampa ad arte. Un sobrio bianco e nero con qualche tocco di colore: rosa e -nella scena di danza- rosso, simbolo delle emozioni, del sentimento, ma anche del sangue e della violenza. Come minacciosi e al tempo stesso incongrui, appaiono gli inserti che marcano gli abiti dei soggetti: vetro e chiodi di rame, materiali fragili e appuntiti, inadatti a proteggere, anzi in grado di ferire. Quasi strumenti da taglio, che nella psicoanalisi junghiana rappresentano le zone oscure dell’io, la parte negativa, rimossa. Di fatto, per la Levenson, una volta cresciuti, conserviamo nella memoria un vissuto infantile simile all’età dell’oro: “con un banale taglia/incolla si salva solo ciò che rassicura… indagare chi eravamo significa scoprire chi siamo oggi”.
Sul fondo in un angolo: Amor, la borsetta irta di aculei come le pantofoline Buon giorno!. Il vestito da Bambina spinosa da lontano è tutt’altro che offensivo: sembra impreziosito dai ricami. L’artista invece, lo ha realizzato con “il filo spinato che in Argentina serve per segnare i confini dei campi, c’è dunque un rapporto di difesa e aggressione”. E ancora, alle pareti fotografie, tra cui Famigliola Levenson, dove l’artista, i genitori e la sorella avanzano allegri in Mar della Plata. Anche qui corazze di vetro inutilmente protettive e scarpine di cemento “che anticipano ciò che sarebbe accaduto una ventina di anni dopo, durante la dittatura militare”. È giocoforza che la Levenson, riproponendo al passato la sua dimensione personale, seppure concettualmente, finisca per raccontare l’Argentina insanguinata di Videla. Attraverso l’arte si fa icona di una generazione di sopravvissuti, mettendo a nudo le loro ferite e le proprie. Che sono un po’ anche le nostre.
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www.silvialevenson.com
lori adragna
mostra visitata il 23 novembre 2006
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