Come ci si sente con una pistola puntata davanti? Dipende dall’arma e dall’occasione. Trattandosi di una mostra di Pop Art e della pistola-fumetto di
Roy Lichtenstein piazzata all’ingresso, la prima sensazione non può essere che di allegra sorpresa: man mano che si procede nella visita, tuttavia, viene sempre più da pensare che un simile avvio visivo definisca fin troppo l’impianto generale dell’esposizione, semplicemente nel senso di colpire e divertire. In effetti, il percorso, per quanto distinto secondo alcuni temi generali (del tipo: “gli oggetti del desiderio”, “il corpo”, “high and low”) e nonostante alcune scelte significative -vedi la ricorrenza e la centralità assegnata alle opere di
Richard Hamilton, come a voler mettere ben in chiaro il ruolo fondatore della scuola inglese- appare più ludico-didattico che critico, perfetto per abbandonarsi a un piacevole girovagare tra opere dalle forme e colori amplificati nel nitore espositivo, ma di fatto senza troppe novità.
A fronte dell’indicazione nel titolo di un arco temporale di riferimento ben definito e, soprattutto, della distanza storica ormai consumatasi, appare tuttavia legittimo interrogarsi sulla tenuta dell’etichetta pop e sui prodotti culturali ai quali questa viene tradizionalmente applicata. Se, infatti, nell’ondata pop che ha travolto il dispositivo dell’arte dopo la mareggiata informale di metà Novecento è possibile individuare alcuni elementi iconografici molto specifici -su tutti la stereotipizzazione di immagini e soggetti tratti dalla stampa popolare o d’impronta pubblicitaria- è altrettanto vero che questi spiegano una parte soltanto del fenomeno e dei suoi protagonisti: tra quelli in mostra, senz’altro
Roy Lichtenstein,
Andy Warhol e
Mel Ramos, assai meno
Jasper Johns e
Robert Rauschenberg (come già Argan nei postumi della mitologica Biennale di Venezia del ‘64 non si stancava di denunciare), per non parlare di alcuni
maverick quali
Ed Ruscha o
Pino Pascali, di cui pure fa piacere ammirare uno straordinario
Torso di negra del 1964.
L’impressione, insomma, è che intorno ai primi anni ‘60 si sia cristallizzata sotto il profilo critico e commerciale un’approvazione verso alcuni stilemi espressivi, indicati da un’etichetta cui parrebbe però più corretto ricondurre il significato originariamente assegnato al termine nella scena inglese (
pop per
scoppio, così come, secondo l’annotazione di Lóránd Hegyi in catalogo, appare nel collage di Hamilton,
Just What Was It that Made Yesterday’s Homes so Different, so Appealing, esposto in copia digitale), preservando invece la radice
popular per qualificare un tratto più generale e ricorrente in tanta arte di ogni tempo. Un tratto, viene da considerare, fatto di forme vivaci ed espressive, caratterizzate da un naturale istinto narrativo e di cui sarebbe assai interessante ripercorrere più approfonditamente ceppi e derive. Qualche conferma al proposito, del resto, sembra trovarsi proprio in tanti protagonisti della mostra, da
Tom Wesselmann, che in un’intervista affermava di rifarsi al fiammingo
Hans Memling, a
Tano Festa, con la sua celebre battuta che “
per un artista italiano, popular è la Cappella Sistina””. Quanto poi una simile tesi sia sostenibile, tocca naturalmente al visitatore considerarlo più da presso, intento a schivare nel percorso l’ennesimo scatolone Brillo o ad ammirare un corrucciato Leonardo di
Schifano.