Dalle performance più estreme, con cui sfidava il corpo
fino a mettere in gioco la sua vita, alla costruzione di architetture-simbolo,
metafore delle espressioni sociali e urbane,
Chris Burden (Boston, 1946; vive a Topanga,
California) ha sempre giocato con il limite.
A Roma propone due strutture architettoniche e un video.
Dreamer’s
Folly accoglie il
pubblico presentando una serie di tre gazebi in ghisa color crema. Pallidi
nella loro manifestazione di pace eterea, sembrano esportati da un giardino
inglese e posizionati secondo una pianta a croce latina. Adornati da tendaggi
che riportano ricami e drappeggi, i gazebo invitano a passeggiare nel breve
percorso che creano, lasciando il visitatore libero di entrare e uscire da qualsiasi
parte della costruzione. Il percorso trasversale che affronta
perpendicolarmente la cupola finale è tuttavia stretto e, nonostante le
aperture laterali che lasciano respirare la costruzione insieme ai ricami di
ferro dipinto, induce un senso di claustrofobia.
Su un’enorme piattaforma in legno sono adagiati
coloratissimi e sontuosi tessuti orientali; quattro ombrelloni sostengono la
struttura erigendosi a tetto, da cui pendono esotiche lampade a olio.
Veli,
tende e altre stoffe recintano la costruzione come se fosse un baldacchino
gigante e piccole scale poste alle estremità delle pedane invitano a salire. La
tentazione è forte, soprattutto per i cuscini adagiati sui tappeti: circa il
60% del pubblico sfida l’installazione, già presentata nel 2001 alla Biennale
di Istanbul.
La misteriosa accoglienza di
Nomadic Folly è ulteriormente mitizzata dalla
danza a cui i tessuti sono sottoposti. Peccato che, intorno al perimetro della
prima sala, ci siano grossi ventilatori bianchi, azionati per provocare una brezza
leggera, ma assolutamente fallace. Artificiale. Così come il marchio degli
ombrelloni, uno pseudo-spot a ricordare che, in fondo, è tutto finto. Oriente e
Occidente s’incontrano architettonicamente davanti a due installazioni
stravaganti che favoleggiano una calma falsa, interrotta dal video dell’ultima
sala, in cui il volto di Burden in primissimo piano appare compresso non solo
dal fotogramma ravvicinato, ma dall’acqua in cui è totalmente immerso, che
sembra arrivargli fino al mento. Con due occhialetti da nuoto, l’artista si
presenta come predicatore dell’umanità, parlando un francese storpiato che
utilizza durante tutto il suo messaggio: una distinzione xenofoba dell’uomo
civilizzato rispetto a quello selvaggio, dal quale bisogna mantenere le distanze.
Ciò che pareva essere un incontro di culture si rivela uno
scontro razzista quasi documentaristico, come se utilizzando il medium del
video Burden avesse voluto palesare l’immediatezza della comunicazione, capace
così di una rapida divulgazione. È forse la lontananza mediatica delle
trasmissioni “imposte” che spesso ci fa essere spietati con l’altro, con “il
selvaggio”, a tal punto da non riconoscere la bellezza esotica in cui vive,
posponendola all’odio storico che è capace di invaderla?
Ecco perché un giardino zen di legno convive nella stessa
stanza di un gazebo “british”. Eppure, nella loro apparente libertà
architettonica, si rivelano entrambi claustrofobici. Da qui l’acqua in cui è
immerso l’artista nel video che conclude il percorso espositivo, quasi a
ricordare che “il medium è il messaggio”.