Tatiana Arzamasova (“A”),
Lev Evzovich (“E”),
Evgeny Sviatsky (“S”) +
Vladimir Friedkes (“F”) costituiscono un collettivo di artisti russi attivo dalla fine degli anni ‘80. Sin dagli esordi,
AES+F si è concentrato su una dimensione estetizzante del dato visivo, inserendosi con indubbia sensibilità dei tempi in quella turbolenta, potente corrente che da qualche decennio ormai attraversa l’arte e per cui non v’è bisogno di coniare alcun nuovo “ismo”, poiché già esiste, seppur ripiegato nel vecchio baule della filosofia: cinismo.
Il termine, va da sé, non ha alcuna connotazione negativa. Anzi, si candida per rappresentare al meglio l’attualità, mescolando con accortezza intelligenza e disperazione, culto dell’immagine e nostalgia dello spirito. A essere filologici, si potrebbe dire che AES+F sono rimasti fedeli al titolo di uno dei loro primi progetti (correva l’anno 1991),
Decorative Anthropology: senza dover neppure troppo semplificare, in effetti, i loro lavori s’impongono per una messa in scena spietata della società umana e dei suoi tipi, ricorrendo nella resa a un’estetica tanto debordante quanto raffinata, capace di citare gli stilemi dei pittori fiamminghi nella realizzazione in 3d di un fondale (si veda il caso del progetto
Last Riot: un video, una serie di collage digitali e alcune installazioni) e insieme di contendere il più puro slancio vetrinistico alla copertina di “Vanity Fair”.
Nell’evento romano è presentata la produzione dell’ultimo decennio, ricostruita attorno ad alcuni nuclei fondamentali: il già citato
Last Riot, in particolare, consiste in scene fotografiche e sculture post-apocalittiche di giovani in algida posa da modelli armaneschi-dolcegabbaneschi intenti a sgozzarsi o a bastonarsi a vicenda, caricare ingombranti armi a ripetizione o lottare plastici sotto cieli percorsi da incombenti elicotteri militari. L’effetto, evidentemente, è di profondo disturbo, per quanto percorso dal piacere sottile di rinvenire un culto per l’immagine in guerra che non teme di lasciarsi riportare alle battaglie di
Paolo Uccello (ma, intanto, già l’occhio s’impiglia nel riconoscimento di loghi commercialmente più vicini, Nike su tutti).
Detto ciò, ci permettiamo di dissentire dalla fiduciosa interpretazione offerta dai cartelli esplicativi. Qui, infatti, non si tratta tanto di una giovinezza di cui il mondo ha pur sempre bisogno per andare avanti, quanto degli attori minorenni di una replica laccata degli ultimi giorni dell’umanità, non foss’altro che per la sconvolgente opera che apre programmaticamente la mostra,
Suspects (1997): quattordici ritratti di fanciulle minorenni, sette delle quali condannate per omicidio e le altre sette selezionate in un liceo della miglior borghesia moscovita, senza che alcuna indicazione consenta una loro distinzione.
Si diceva del disturbo, del fastidio che una simile mostra provoca. Resta da dire dell’inusuale consonanza dello spazio espositivo con l’operazione artistica, posto che il Macro occupa i vecchi locali del mattatoio capitolino. In segno di adeguamento ai tempi, qui la carne esposta non è più da macello, bensì da rivista. E non è detto che un qualche progresso sia in questo da trovarvi.
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Ottima recensione.
Compliementi.
Complimenti Luca!!