L’improbabile contatto, diretto ed esclusivo, con l’Eterno di
Ilona Nemeth (Dunajská Streda, 1963; vive a Budapest) e l’improbabile utilizzo di oggetti comuni di
Kristof Kintera (Praga, 1973) sono l’espressione delle riflessioni che i due artisti hanno tradotto nelle installazioni dislocate negli ambienti della galleria romana.
Entrambi, infatti, mettono in discussione e criticano aspramente (ma gioiosamente) i processi della società attraverso l’analisi della funzione degli oggetti quotidiani, ma la loro manipolazione è parziale, non stravolge affatto l’intrinseco aspetto, permettendone sempre l’immediata riconoscibilità.
È così per
Fatal Egoist di Kintera: una malformata e inutilizzabile mountain bike che sembra essersi appena schiantata contro un palo, ma che poi, a ben guardare, conserva un valore formale che la rende di fatto un affascinantissimo oggetto di design. Ed è così anche per
Pax Nexus Salvus di Nemeth: un comune armadio-guardaroba di Ikea mantiene intatta la sua struttura esterna, mentre all’interno tutto viene deformato: i ripiani e i cassetti, caratteristici della ‘griffe’ svedese, sono sostituiti da quegli elementi peculiari di ogni confessionale.
Le tre ante sono occupate, ai due lati, dagli inginocchiatoi dei fedeli e dalla grata attraverso la quale il penitente confessa i propri peccati al sacerdote. Simile il procedimento in
Malm-in, la cassettiera che, ugualmente, mantiene invariata la struttura. Nella parte anteriore rimangono i cinque cassetti, mentre nella parte posteriore è inserito un inconfondibile inginocchiatoio.
Entrambi i mobili sembrano esprimere un concetto di religiosità intima e domestica, tipica del passato, ma qui resa più nascosta, perché sono perfettamente mimetizzati con l’arredamento casalingo; o addirittura esprimere una modalità di usa-e-getta della religione che, passate le mode, può esser sostituita da qualcosa di più moderno o continuamente rinnovata. Oppure, ancora, la globalizzazione di un messaggio religioso che, nella sua estrema diffusione, perde appunto d’identità e spessore. Ma anche, forse, la presunzione di poter gestire, in maniera autonoma e individuale, il rapporto con l’Eterno, senza l’intermediazione di alcuna struttura chiesastica. Molteplici dunque i piani di analisi per una lavoro che proprio per questo risulta complesso e maturo.
Lo stesso concetto paradossale è espresso da
My light is your light di Kintera: un grande lampadario, appoggiato al soffitto perché le sue enormi dimensioni gli impediscono di essere appeso, e costruito con originali lampioni stradali cecoslovacchi e inserito in un ambiente altro. È una scultura straniante, animale o vegetale, che pare essere sempre stata nello spazio della galleria. Di essere germinata e cresciuta qui, come una piovra in un acquario troppo piccolo.
Volendo forzare la lettura, i lavori letti in conseguenza riescono a creare una sorta di percorso “spirituale”. Un tracciato ascetico secondo il quale attraverso un’intima preghiera e profonda confessione dei propri quotidiani peccati, si può raggiungere la luce. Anche se artificiale e tutt’altro che rassicurante.