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fino al 27.VII.2003 Mario Sironi – 1940 / 1960 Roma, Palazzo Valentini
roma
Periferie verde cupo; campagne deserte, appena fuori città. Su tutto uno sguardo malinconico, che ha conosciuto il dolore e il disincanto. Quello dell’ultimo Sironi, che non tutti conoscono. Una mostra per un artista di cui tutt’ora è difficile parlare...
di redazione
È un Mario Sironi meno epico e più lirico quello che emerge dalla mostra, un aspetto al quale forse siamo meno abituati. Le opere esposte riguardano infatti gli ultimi vent’anni della sua vita quando Sironi ha dovuto constatare il tramonto del fascismo in cui lui aveva fermamente creduto fino alla fine; venuti meno gli ideali e la passione politica, l’artista rappresenta l’umanità con uno sguardo introspettivo ed esistenzialista, mettendo a nudo il senso tragico della vita e lo smarrimento dell’uomo contemporaneo costretto a vivere accanto allo squallore delle periferie urbane.
Come ha precisato nel suo discorso introduttivo Vittorio Sgarbi, curatore della mostra, Sironi era profondamente convinto della rivoluzione fascista e cerca una sua verità dell’arte da dentro il potere, a differenza di Picasso che nel suo quadro più conosciuto ed emblematico, ‘Guernica’, cerca una verità che è in contrasto con il potere. Quando cade il fascismo, Sironi non lo rinnega; gli resta l’arte, gli manca la Storia. Scrive su un foglio tra il ‘44 e il ‘45 …Ogni giorno è lo sforzo immane di vivere con un cuore schiantato… ancora e sempre solitudine atroce…. Per quanto riguarda il rapporto tra arte e potere Sgarbi sottolinea come, pur essendo un fascista convinto, Sironi non è mai ossequioso nei confronti del potere, non è mai un pittore di regime, semmai come David è un pittore di Stato.
Tra i tanti quadri presenti alla mostra, Paesaggio urbano del 1954, una tempera su carta che ritrae uno dei temi cari all’artista, quello delle periferie urbane: un sottofondo verde cupo sul quale si stagliano dei grattacieli sbilenchi. Gli fa da contrappunto Campagna dello stesso anno, dove predominano i colori blu, marrone e verde. Il paesaggio, visto dall’alto –che s’ispira all’aeropittura di Gerardo Dottori– è deserto, senza presenza umana. Interessanti anche i bozzetti grafici che Sironi fece per pubblicizzare una serie di vetture della Fiat.
L’apologo del 1944 testimonia gli interrogativi a sfondo religioso dell’artista; è un quadro di grande forza espressiva. Cristo è rappresentato sul lato destro del quadro ed è circondato dai suoi discepoli che invadono tutto il campo della tela e lo guardano con occhi ingranditi dallo stupore e dalla meraviglia. Infine, vale la pena di menzionare L’ultimo quadro. Questo è il titolo con cui si indica il quadro ritrovato sul cavalletto nella sua stanza e che è stato la sua ultima opera. La parte superiore della tela presenta delle sagome e dei contorni appena abbozzati, mentre nella parte inferiore si vede un ultimo paesaggio urbano. Fa da sfondo a dei personaggi che camminano con un passo quasi meccanico, da automi.
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consuelo valenzuela
mostra vista 20 maggio 2003
Mario Sironi – Gli anni della solitudine 1940 – 1960, a cura di Vittorio Sgarbi
Palazzo Valentini, via IV Novembre 119a (Piazza Santi Apostoli), call center 800297814, www.sironi1940-1960.it , mar_dom10-19 ingresso intero 6 euro, ridotto 4 euro, catalogo Mondadori 40 euro
[exibart]
Ritengo sia una mostra davvero interessante: per la “novità” dello spazio espositivo, ché l’arte dovrebbe servire anche per pensare al livello di novità che l’immaginazione e la conoscenza riescono a riflettere nel circuito delle cose nuove. Ripensare Sironi, in generale, vuol dire speculare su una buona “fetta” di modernità; ripensarlo in un contesto antico, spesso anacronistico, anziché nei freddi e labirintici complessi urbani, è una “sfida” tutta cerebrale. La novità per me: “L’ultimo quadro”…del ’61. Sul cavalletto del “Maestro” resta un’opera destinata ad essere contemplata tra le opere di un anno complesso, di una generazione che si ripensa e che ottiene “un di più di conoscenza non preventivata”. Non si vuole ricavare tautologicamente un’arte che possa risolvere la “sfida”, bensì una che quella sfida la possa, teleologicamente, conservare. E la parabola di Sironi credo possa esserne l’emblema. G.V.