Fil rouge di
Prospects. Contemporary Art from India è certamente il cinema indiano, “
grandissima ispirazione per molti degli artisti presenti -spiega Gaia Morrione, curatrice degli eventi speciali di questa seconda kermesse cinematografica romana-
sia sotto forma di parodia che di magnificenza”. È del tutto casuale che la sua apertura coincida con quella di un’altra mostra importante,
India Arte Oggi allo Spazio Oberdan di Milano, dove ritroviamo alcuni dei nomi presenti a Roma: “
Testimonianza dell’interesse per questo paese poco conosciuto, almeno in Italia, dal punto di vista artistico”.
Guarda al cinema -suspense, sorpresa, gioco vedo/non vedo inclusi- il superbo allestimento nel parcheggio coperto dell’Auditorium. Dall’oscurità emergono solo le opere, a cominciare da
Indian Lady (1997), il video di
Pushpamala N (Bangalore, 1956), che avvolta nel sari rosso entra ed esce nello spazio delimitato dal fondale dipinto (un panorama urbano di grattacieli stilizzati), di quelli che si usavano nei vecchi studi fotografici. Uno sguardo su Bollywood che è ironico ma indulgente. Della stessa autrice anche il fotoromanzo in dieci lastre fotografiche dipinte a mano
Sunhere Sapne (1998).
Fotografia e video sono le tecniche predominanti di questa rassegna, impiegate dalla maggior parte degli artisti, le cui tematiche abbracciano vari aspetti sociali.
Global Clones (1998) è il titolo dal significato inequivocabile della videoproiezione al suolo di
Sharmila Samant (Bombay, 1967), che mette in relazione un paio di scarpe da ginnastica Nike con sandali e ciabatte del suo Paese. In
Trans- (2004-2005), l’artista femminista
Tejal Shah (Bhilai, 1979; vive a Bombay) affronta l’identità sessuale attraverso l’immagine di alcuni personaggi -inclusa la propria- riflessa nello specchio. Identità che si esterna attraverso gesti come il make-up o la rasatura.
Non mancano i riferimenti al caos magnetico delle città indiane, non solo quello esterno che si respira all’aria aperta, tra sovrapposizioni aritmiche di odori, colori e suoni -molto bella l’installazione di
Vivan Sundaram (Simla, 1943; vive a New Delhi),
Great Indian Bazaar (1997), in cui l’artista rende l’atmosfera metropolitana attraverso 1500 fotografie, tutte della stessa dimensione e contornate dalla cornice metallica- ma anche quella interna, del sottosuolo, nella visione ambigua e colorata di
Jitish Kallat (Bombay, 1974) in
Paper Onomatopoeia: The Scar Park (2005).
Raffinato il video in bianco e nero
History Is a Silent Film (2007), a metà strada tra documentario e album di famiglia, di
KM Madhusudhanan (Kerala; vive a New Delhi). È un omaggio al cinema muto, ma anche a un mestiere in via d’estinzione, quello dei tecnici riparatori di vecchi proiettori.
Focus India include una selezione di fotografie acquerellate a mano di
Luigi Ontani, sulle pareti del Museo Archeologico. Negli anni ’70 l’artista si avventurava in India, portando con sé
L’Inde (sans les Anglais) di Pierre Loti. Una scoperta che continua e che si respira nel work in progress
En route vers l’Inde. “
La fotografia, in molti casi, è una mia regia in cui vengono coinvolti fotografi sul territorio o, comunque, con cui ho un rapporto e delle complicità. Nel caso dei tappeti volanti era un qualcosa che portavo con me, una testimonianza del viaggio geografico effettivo, perché sono stato realmente in quei templi. In altri casi, come nello studio fotografico di Mount Road, molto noto a Madras negli anni ‘70 (allora era la capitale del cinema indiano), assumevo delle pose con la memoria dell’arte, riferendomi soprattutto alla tradizione iconografica della pittura emiliana, anche con un compiacimento esotico-orientalista”.