“Se ci sarà un futuro sarà solo in base a quello che le donne sapranno fare”. Parola di Rita Levi Montalcini, che fece questa dichiarazione esattamente un anno fa, in occasione della prima edizione della mostra Lilith. L’aspetto femminile della creazione presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati. E questo secondo appuntamento ne è la dimostrazione. Le donne sanno fare.
Altre Lilith è una mostra ricca di nomi noti a livello internazionale (Mariko Mori, Carolina Raquel Antich, Bruna Esposito, Orlan, Vanessa Beecroft). 36 artiste, provenienti da 15 nazioni diverse. Il nome scelto intende dare risalto alla parte più autonoma e inafferrabile della donna (Lilith, partner di Adamo prima di Eva, fu cacciata perché non volle sottomettersi). Questo tema, riletto in campo artistico, può voler dire più cose: che l’espressione artistica femminile è come quella maschile e che dunque esse possono –e devono- dialogare, oppure che questa è l’arte delle donne, inevitabilmente diversa e lontana da quella degli uomini. “Le artiste riunite in questa esposizione si confrontano con i differenti orizzonti tematici dell’appartenenza e delle origini territoriali, della funzione e del suo ruolo sociale, della modificazione del corpo come sindrome di adattamento o resistenza al reale, con il corpo come ultima merce di scambio economico, con i concetti di etnia”.
Il messaggio della mostra è forte ed evidente, basti pensare al video della bulgara Mariela Gemisheva in cui bellissime donne sfilano in passerella fino a raggiungere un falò dove danno fuoco ai propri vestiti. Un rogo che, oltre al gesto provocatorio nei confronti del fashion system, diventa purificatore, come in una moderna caccia alle streghe, restituendo alle donne la propria identità. Donne-bambole sono in posa nelle fotografie della londinese Janieta Eyre, mentre spicca l’immagine provocatoria Cristo Incinta della turcoromana Sukran Moral.
Ma Altre Lilith non è solo questo. C’è l’eccellente capacità esecutiva dell’americana Heidi McFall con ritratti a carboncino e matita che sembrano vere e proprie fotografie; c’è Stefania Fabrizi con Di fiamma vestita, velata citazione caravaggesca della Madonna del serpe, capace di fondere iconografie occidentali e orientali. Alla plasmabilità del materiale è legata la zuccherata tavola da tè di Ester Viapiano, una visione incartata e incantata, un’immagine onirica che vien voglia di toccare, realizzata con stoffa inamidata e zucchero. Oppure il marmo rosa levigato di The big bean di Jessica Rosalinda Carroll, accanto alle forme flessuose e rifrangenti in vetroresina di Coralla Maiuri (presto la sua prima personale a Roma, da Paolo Bonzano) e alle costruzioni sospese in piume nylon e ferro di Maria Luisa Tadei.
Uno spirito adolescenziale spira nelle tele di Yumi Karasumaru, legate al tema del consumismo nel divario delle tendenze e del costume tra oriente e occidente; mentre divertenti e un po’ pop sono le rielaborazioni dei grandi classici del passato (qui Antonello da Messina) della russa Olga Tobreluts.
Non mancano i riferimenti alla guerra, come in Margot Quan Knight dove rivoli di sangue -quasi una decorazione- si tessono su stoffe e uncinetti intrecciandosi ai richiami bellici di una mimetica. E non mancano neanche riferimenti alle diversità religiose, come nell’affermazione del proprio essere musulmana di Nzingah Muhammad. Infine, cronache di vita ci vengono offerte dall’egiziana Sabah Naim (felice partecipazione alla scorsa Biennale) sullo sfondo di una distesa di piccoli rotoli di giornale, nella cui ripetitività si riconoscono i motivi geometrici tipici dell’arte araba.
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