Nella vetrina su strada, un gigantesco pallottoliere. Le sfere scorrono sui fili metallici nell’ineluttabile incontro/scontro con l’icona centrale, l’immagine incorniciata di un bambino. Quattordici è il numero delle sfere, così quello dei giovani visi destrutturati racchiusi all’interno di teche. E ancora: quattordici sono gli orologi che segnano ore diverse e le scatole-occhi, nell’ultimo spazio della galleria. È regola ossessiva, nell’installazione site specific di
Pierluigi Febbraio (Roma, 1976), che con la sua personale apre la stagione Romberg.
Quasi una coordinata nella mappa del suo viaggio interiore tra infanzia e adolescenza, tracciata utilizzando segni, materiali in contrasto, archivi di memorie. Non a caso il numero quattordici, secondo l’antica cabala, è simbolo fra l’altro della repressione, dell’impotenza, delle situazioni o degli oggetti che imprigionano. Come le bacheche in plexiglas che al proprio interno soffocano, sacralizzandoli a mo’ di reliquie, ritratti seriali di adolescenti realizzati in malta micacea su forex.
Ma ecco frapporsi un elemento a minare la rigorosa impalcatura progettuale: è la quindicesima sfera sul petto della figura-totem, nel pallottoliere. Il quindici può rappresentare il tempo scandito dall’orologio, che avvicina la resa dei conti, generando insicurezza. Ed è proprio l’instabilità alla base del processo creativo dell’artista. Nello spazio-aula, l’idea del tempo è soggettiva, relazionale, un inganno dei nostri sensi.
Qui, una vecchia lavagna è abaco di interrogativi e il registro serve ad annotare gli stati d’animo dei visitatori. Un inquietante universo gulliveriano – concettualmente affine a quello di
Ron Mueck – dove l’artista costringe gli adulti a guardare ad altezza di bambino, condividendone emotivamente il malessere.
Sulle pareti della sala al piano inferiore s’irradia, partendo dalla figura della piccola protagonista, un disegno in bianco e nero. È l’archivio di memorie del suo vissuto. Attraverso la regressione infantile scaturiscono impronte grafiche di aspetti della mente non accessibili alla coscienza. Accanto al mostro dalle fauci spalancate sfilano abbozzi di figure umane senza braccia (“punizione” inflitta a chi è percepito come minaccioso) e senza bocca né orecchie (impossibilità di comunicare). E ancora: un sole (figura paterna) con la bocca digrignante, manifesta rabbia nascosta nei confronti di chi procura disagio.
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Per un bambino il sole è un pretesto per descrivere qualcosa del proprio mondo interiore che non ha”, ribadisce l’artista. Sulla parete di fondo: una sequenza metaforica di occhi. Perché “vedere” significa prendere coscienza: equivale a “sapere”, possedere il mondo, dunque, imparare a dominarlo.