Alla Sala 1 -in occasione dell’opening della sua prima mostra italiana- Anton Bruhin (Lachen, 1949) si cimenta in una performance sonora, suonando alcuni brani con i suoi scacciapensieri. Da circa trent’anni non solo colleziona questi strumenti musicali (ne ha circa mille) che fanno parte della tradizione culturale europea e asiatica, ma suona ai concerti, compone e incide cd.
Il trait-d’union tra la musica e alcune sue opere è forte, in particolare con le calligrafie che realizza nel ‘77. Il pennino d’acciaio che intinge nell’inchiostro di china per realizzare i suoi caratteri di fantasia è molto simile allo scacciapensieri: stessa punta metallica, stessa flessibilità. Anche il suono, l’armonia è rintracciabile in quei segni che si rincorrono sulla carta bianca. Alla base c’è anche la memoria della scrittura automatica dei surrealisti.
I caratteri del courier new (quelli della tradizionale macchina da scrivere) sono alla base di un altro lavoro –Tipogrammi– cui si dedica per anni: è del 2005 la pubblicazione del volume Reihe Hier, 500 Typogramme und 10000 Palindrome. Dalla sovrapposizione dei caratteri della stessa dimensione, sempre associati in maniera simmetrica, nasce un repertorio di immagini nuove. Alcune astratte, altre stilizzate che ricordano musi di animali, motivi ornamentali.
Anche il riferimento alla poesia visiva e concreta è tangibile. Altro possibile spunto di riferimento è la pop art, sempre in una visione molto personale dell’autore, come nel Risonatore (1998), la tromba smaltata di nero del clacson di un camion e la Sedia (1997). Quest’opera non è che un oggetto che fa parte della sua storia: una vecchia sedia azzurra che, restaurata più volte, infine cambia destinazione d’uso. Perde la tridimensionalità a favore di un assemblaggio bidimensionale in cui la simmetria delle listelle di legno rimanda ad uno schema geometrico.
Non è un caso che nella stessa nicchia della parete accanto a questa opera sia esposta lo Schematoide (1997), un oggetto composto da 33 bacchette di legno che l’artista ha realizzato pensando al teschio di Lucy, metà scimmia e metà uomo primitivo. L’essenzialità del gioco di linee orizzontali e verticali rimanda proprio all’icona delle maschere africane.
Il messaggio è chiaro, l’artista svizzero non vuole certo scioccare lo spettatore con l’estrema fluidità e leggibilità delle sue opere -soprattutto dei dipinti figurativi (è dichiarata la sua ammirazione per Lovis Corinth (1858-1925), pittore vicino all’impressionismo)- testimoni di una realtà visiva ed emotiva che è tutta sua, ma che esula da possibili interpretazioni. Perciò niente doppi sensi, né messaggi ambigui o cervellotici.
Il dipinto ad olio Panorama a Tapolca -un lungo campo di grano con le balle di fieno e le montagne ungheresi dietro cui si estende l’immensa superficie del lago Balaton- non è che il souvenir di una visione che ogni estate, a partire dal 2001, allieta lo sguardo e l’animo dell’autore, esattamente come altre opere (tra cui 49th Street on Madison Avenue o Penny e Kimberly) sono state realizzate nel 1987, durante i sei mesi di permanenza a New York come artista residente, ospite della Città di Zurigo.
manuela de leonardis
mostra visitata il 28 novembre 2006
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più che un opera, la rappresentazione di quelle note mi sembra un cartellone pubblicitario