La visione epidermica, bidimensionale, olografica di Christelle Familiari (Niort, 1972; vive a Parigi) non lascia spazio ad altro. E permea, con radicale esclusività, tutto il suo lavoro. I collage, innanzitutto. Intanto, il foglio di carta bianco su cui sono incollate le figure che occupa la maggior parte dello spazio. Poi le piccole figure, composizioni non meglio identificabili ottenute ritagliando parti umane da foto che appartengono palesemente all’advertisement più glamour, quello patinato creato esplicitamente per esaltare il mondo della moda. Un ritaglio con gonna da cui spuntano delle gambe, uno con un pezzo di braccio su cui si intravede appena la spallina di un abito da sera molto chic, altri con busti levigati parzialmente ricoperti da un intimo raffinatissimo. Il tutto destinato ad unirsi in una composizione informe, a volte zoomorfa (una serie di corpi tronchi incollati in sequenza e con la posa tipicamente inarcata danno davvero la sensazione di uno strano serpente), ma che in realtà non è identificabile in modo preciso e non sembra avere l’obiettivo di ricordare, neppure in modo molto vago, delle forme già conosciute.
Lo scopo più verosimile, se di scopo si può parlare, sembra essere quello di giocare con le forme stesse, che proprio in questo tipo di foto -zeppe di top model vestite fashion- prendono il sopravvento, e riescono ad esprimere, più che una dimensione umana, il valore della forma, della proporzione, della struttura. Più simili in questo ad uno studio sui frattali che ad un servizio sugli usi e costumi di una nazione. Ed è proprio così che Familiari sembra usarle, giocando sulle increspature del tessuto di una camicetta, sulla plissettatura di una gonna, sul riverbero metallico di una calza di nylon. Il nostro identificarci e riprodurci continuamente nella superficie ci dà, in effetti, una forma proteica, in continua modificazione, senza che ancora ci sia dato di capire se riusciremo, un giorno, a decantare il tutto in qualcosa di più armonioso e razionalizzato.
Forse davvero in un’epoca lontana un teletrasporto alla Star Trek potrà disintegrarci e ricomporci serenamente senza che con le nostre cellule tissutali (compresa la tuta da astronauta) vengano disintegrate e irrimediabilmente perse, insieme alla nostra anima. Intanto però, come nel video della mostra, siamo costretti ad un continuo loop dove l’entrare ed uscire dai nostri abiti, dalla nostra dimensione più mondana, da quella valenza comunicativa immediata che ci circonda come un’aura, non ha mai fine. Dimensione nella quale stiamo trascinando anche il mondo intorno a noi, come mette a fuoco il bel lavoro in fil di ferro intrecciato Volumes, che riproduce un terreno con dei sassi, ma ne dà una versione leggera e totalmente riferita alle sue strutture più immediatamente percepibili. Quelle, tanto per intenderci, calcolabili, geometrizzabili, matematizzabili e digitalizzabili. Ma soprattutto comode da portare con sé, in un eventuale viaggio intergalattico.
valeria silvestri
mostra visitata il 12 aprile 2007
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