Enzo Lisi (Sezze, 1952), Solo show volume cinque. Dalla città alle omissioni del corpo, che dilata la sua presenza attraverso riflessi e ombre di sguardi, tesi tra assenza ed esplorazione. Oppure attraverso manichini o giocattoli, elementi di viva ambiguità simultaneamente non-vivi. L’immagine come montaggio di situazioni urbane: vetrine, strade, cantieri e segnaletiche per un’esperienza dei luoghi dove gli spazi si palesano attraverso i congegni linguistici del doppio: attenzione e oblio, presenza e straniamento, percorso stabilito ed esperienza personale. Le ultime tele di Lisi combinano insieme tutte le piste tematiche che da più di un decennio caratterizzano la sua ricerca, ponendo il lavoro come interessante ricapitolazione, ma anche come esigenza di apertura verso ipotesi future. L’esito formale presuppone l’alta qualità della tecnica, da sempre attenta e lontana da autocompiacimenti nella sua funzionalità, orientata verso l’aderenza programmatica tra estetica formale e riflessione concettuale.
Nei cicli passati (in particolare Silenzio, 1997), la pellicola pittorica era costruita attraverso strati sottili, che davano l’illusione del “reale” nel senso più classico del termine (il metodo ha le sue radici storiche nel Rinascimento italiano, ma soprattutto nella pittura fiamminga). Questa illusione, lontana da suggestioni iperrealiste alle quali troppo spesso e troppo superficialmente è stata accostata la sua pittura, acquisiva significato in relazione agli spazi costruiti. Spazi impossibili ma credibili che dopo un’attenta lettura confermavano atmosfere di impatto destabilizzante, basate sul fascino delle incongruenze. Nelle ultime opere, Lisi ha azzerato le velature mantenendo il congegno formale: manualismo e tecnologia come strutture di pensiero in cui la realtà è consapevolmente assorbita e alterata. Il pennello inizia la stesura dal particolare e le immagini costruite vivono di un’attenta sintesi che restituisce non tanto l’illusione ottica di una realtà apparente, ma la metabolizzazione interiore di ciò che si osserva, con la sensazione che queste immagini siano state compresse sottovuoto, schiacciate tra due piani invisibili che rimandano alla tela come unico spazio della visione.
Carlo De Meo (Maranola, 1966), Camera con vista volume cinque. Il corpo di un uomo tagliato a pezzi se ne sta tranquillo su un tappeto orientale. La scena emana quiete (Indolore, è il titolo dell’opera); il corpo nudo assorbe gli arabeschi del tappeto e mostra il loro disporsi interno, come se questo mimetismo abbattesse ogni ipotesi di separazione con l’esterno. Da questa idea tanto semplice quanto poetica, costruita a poco a poco partendo da accadimenti casuali, ha inizio un ciclo di associazioni mentali, dove l’opera acquista l’intensità che le è propria. De Meo è uno sperimentatore che ha saputo condensare eredità storica e impronta personale. Da buon riformatore qual è, integra nel suo linguaggio quasi tutto il novecento ben digerito e rimesso a nuovo: dall’associazione libera di idee surrealista alle sperimentazioni concettuali degli anni sessanta, quelle più legate alla performance e all’istallazione. Assemblaggi di sculture e oggetti trovati che dal forte impatto passano a suggestioni con continuità assicurata, rendendo possibile una lettura approfondita: è nella mente del fruitore (primo tra tutti l’artista stesso) che lo stato concettuale dell’opera si risolve in approfondimento etico. La memoria, la corporeità, l’esperienza del quotidiano e il ribaltamento inventivo degli oggetti presuppongono uno svolgimento continuo che dall’esterno scivola verso l’interno, orientando le azioni del vivere.
daniele fiacco
mostra visitata il 17 marzo 2007
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