Mario Schifano (Homs, 1934 – Roma, 1998) amava parlare poco di sé, preferiva dipingere. Dare sfogo al suo incontenibile istinto creativo, al senso pittorico che lo portava ad attingere alle fonti più disparate, in maniera disordinata. Permettendogli però di creare immagini sempre nuove, che hanno rivoluzionato la pittura italiana e non solo. Ciò nonostante, non riconosceva nessuna paternità:
Warhol, per molti tratti simile, per lui era semplicemente un contemporaneo.
Vita e arte viaggiano in parallelo, influenzandosi reciprocamente, “
un occhio all’arte e due alla vita!”. La sua esistenza è stata una parabola vertiginosa, che lo ha consacrato uno degli artisti “maledetti” del ventesimo secolo. Studente pigro, attento osservatore, fanatico del contesto urbano, esordisce nel febbraio del ‘59 in una collettiva a Roma. La sua produzione artistica si snoda nell’arco temporale di quattro decenni, che lo vedono muoversi dai monocromi dei primi anni ‘60 alle sperimentazioni multimediali degli anni ’70-‘80.
Bello, estroverso, esibizionista, con un ottimo senso del sé, diventa in pochissimo tempo un mito. Ma la sua esistenza viene messa seriamente in discussione dall’abuso di droghe. Verso la metà degli anni ‘80, però, incontra Monica De Bei. Dal loro matrimonio nasce Marco Giuseppe.
Apparentemente semplice, umanamente complesso: così appare nella retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, inaugurata in occasione del decennale della morte e dei cinquant’anni dal suo esordio.
Schifano è un artista tortuoso, pur nella linearità e compostezza della sua numerosissima produzione artistica. Quasi settanta dipinti, cinquanta disegni, fotografie e film documentano l’esistenza straordinaria di un uomo che rappresenta, ancora oggi, un caposaldo dell’arte italiana nel mondo. La sua pittura stabilisce sempre un contatto con la realtà esterna: essere artista moderno significa essere uomo moderno, non sottrarsi alle circostanze ma viverle e descriverle attraverso l’arte. Magari accelerando il ritmo artigianale della pittura, per portarlo a quello industriale della macchina.
L’esposizione romana presenta alcuni tra i più importanti lavori dell’artista. Per l’occasione, infatti, moltissime collezioni private hanno fornito opere, alcune quasi sconosciute. L’allestimento, a cura di Achille Bonito Oliva, è stato diviso in sezioni, ognuna incentrata su un aspetto particolare della sua produzione artistica. Una sezione ad hoc è dedicata ai disegni: distaccata da quella dei dipinti, perché posta ai piani superiori della Galleria, restituisce il lato più intimo di Schifano e contiene tra le altre cose alcuni bozzetti di rara bellezza, come la serie delle
Ferrari dedicata alla moglie e al figlio Marco.
Bellissima anche la sezione dedicata alle opere grafiche. Per la prima volta viene esposta la cartella realizzata con il poeta Frank O’Hara e diverse polaroid che immortalano istanti di vita che l’artista spesso trasferisce sulla tela. Il percorso espositivo è dunque di notevole impatto emotivo, anche per la dimensione di alcuni lavori presentati.
L’equazione artistica di Schifano si muove nel senso di quantità-qualità-quantità, senza mai sconfinare in una pittura calcolata. I monocromi degli anni ‘60, ad esempio, sono occasioni per estendere il colore (materia) sulla superficie, come fossero spazio e tempo. Espansione e concentrazione che si trasformano in un atto delimitato spazialmente dal colore e temporalmente dal segno. Arte bidimensionale, artificiale e macchinosa.
I film di Schifano affrontano il concetto di tempo attraverso il movimento quantitativo della pellicola, che ha una fine. Polarità: spazio bidimensionale scorrevole; orizzontalità: esibizione frontale di segni che popolano lo spazio interno, ripetizione programmata di immagini. Azione e contemplazione. La monotonia/monocromia viene sempre interrotta dall’introduzione di un accidente, di un piacere gestuale: sbavature, tracce di colore, inquadrature, particolari e dettagli.
Prima di morire, Schifano tornerà alla pittura in senso stretto, abbandonando la poetica della macchina e della riproducibilità meccanica. Un ritorno alle origini chiude il cerchio di un’esistenza meravigliosa.
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Alacrità
Alacre si muove Schifano nell'arco del suo tempo volendo afferrare e rappresentare tutto ciò che lo rappresenta. Sempre produttivo e sempre diverso dal paesaggio, ai video, dalle auto ai fiori coglie ogni cosa e la rappresenta solo nel momento in cui gli è dato viverla interiormente. Così riesce ad essere rapido e lieve ma ricettivo anche di risonanze profonde.
Il "masochismo volontario" di Mario Schifano, i suoi monocromi gialli, le contraddizioni, gli eccessi e l'estro, pongono questo straordinario artista nell'olimpo dell'Arte Moderna e Contemporanea, a fianco di grandi interpreti nazionali e internazionali quali Sam Francis, Carol Rama, Marc Rothko e David Park, pronti ad accogliere una nuova generazione di talenti dalla quale emergono personalità esuberanti come quella del giovane casertano Maurizio Carriero con la sensualità dei suoi "nudi di donna", dell'affascinante pittrice torinese Amanda Nebiolo con la sua "New Cerebral Art", e del "surrealismo terapeutico" proposto e realizzato da Domenico Dell'Osso.
L'inizio del secolo da poco concluso, con i grandi artisti che lo hanno rappresentato, e la sua seconda metà preludio dei giorni nostri, con l'entusiasmo e la preparazione di giovani attenti e motivati e, per dirla con le parole dello stesso Mario Schifano, con ogni possibile espressione di ciò che è "Umano non umano".