Di poco successiva a una personale milanese, il passaggio romano dell’artista tedesco
Stephan Balkenhol (Fritzlar, 1957) rappresenta l’ennesima conferma di una cifra stilistica ormai consolidata, fatta di sculture dipinte volutamente ruvide nelle finiture, legnose come poche quanto a materia e aspetto, ieraticamente sospese su piedistalli di cui costituiscono al contempo prolungamento e culmine.
La critica internazionale si è da tempo esercitata nel rinvenire le origini ideali delle figure di Balkenhol in vari ed eventuali precedenti, dai
kouroi di dorica memoria alla statuaria medievale tedesca. Fra le tante voci al riguardo, la più lungimirante rimane forse quella di Donald Kuspit, il quale più di un decennio fa annotava sulle pagine di “Artforum” come quelle del nostro fossero “
Ur-figure”, “
monumenti pubblici con un messaggio morale” sul modello delle figure allegoriche che campeggiano nelle basiliche del Nord Europa, per quanto tale messaggio risulti poi, per così dire, raggelato in una sospensione narrativa che consegna la possibile storia (e la scelta di un finale) all’osservatore di turno.
Detto questo in generale sull’opera dell’artista, più nello specifico rispetto alla mostra in esame va pur considerato come l’impiego dello spazio a disposizione e la scelta degli accostamenti appaiano poco felici.
All’interno della saletta della galleria priva di luce naturale, di fronte a un terzetto delle tipiche figurine-steli, l’avvicinamento di una testa dalle dimensioni considerevoli a un bassorilievo ligneo raffigurante due cani arrabbiati su un cupo fondo vinaccia trasmette, infatti, una tensione che non pare tanto nelle corde dell’artista quanto conseguenza dell’angustia espositiva.
Corde sotto molti aspetti tese piuttosto dall’ironia, in consonanza a una serie di contemporanei (ad esempio
Fischli & Weiss, ma il pensiero va anche alla figurazione di
Duane Hanson) per i quali sarebbe interessante analizzare una buona volta la possibilità di risalire un’unica corrente.
Tornando alla mostra, due ritratti-bassorilievi finiscono poco valorizzati nel corridoio d’ingresso, dove si ha l’occasione di studiare una serie di disegni incentrati sulla figura umana e il volto che però, almeno in chi scrive, suscitano pochi entusiasmi. L’irsuto non-finito che nel trattamento del legno assume intensità e si fa tramite di un conturbante straniamento, sulla carta pare in effetti ridursi più che altro a mero effetto bozzettistico.
Conclude l’esposizione una bella scultura di media dimensione, una sorta di monumento all’uomo comune, disposta al fondo del corridoio in candido isolamento. E che pare così trovare la sua opportuna risonanza.