Contemporaneamente alla magnifica retrospettiva dedicata dal Madre di Napoli ad
Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), la Galleria Alessandra Bonomo presenta una mostra dell’artista piemontese in cui sono presenti lavori su carta e arazzi di diverse dimensioni e periodi, prevalentemente dalla fine degli anni ‘70 al 1990.
Una mossa intelligente e opportuna, sia a livello promozionale che commerciale, che però si rivela come un’arma a doppio taglio. Infatti, se nel museo partenopeo il complesso percorso espositivo, studiato straordinariamente, porta a intuire “
la ricerca poliedrica di Boetti e a comprenderne le tematiche portanti: la dialettica tra concetti opposti, gli sdoppiamenti, la riflessione sul tempo, l’oggettivo che si fa soggettivo e viceversa” (Alessandra Troncone), nella galleria capitolina purtroppo manca un vero principio propositivo e, di conseguenza, un legame solido fra i diversi lavori esposti.
Collage e carte nella prima sala e diversi arazzi nella seconda che, nell’insieme, non sono in grado di evidenziare la complessità della sua produzione, i confini e il loro superamento, il caos, la mescolanza di linguaggi e culture, la discussione del ruolo tradizionale dell’artista, gli interrogativi sui concetti di serialità, ripetitività e paternità dell’opera d’arte, i sistemi nei quali agire; oppure la geografia, la matematica, la geometria o i servizi postali come piattaforme delle scelte di uno fra gli artisti italiani più famosi, tra i più conosciuti e riconosciuti anche all’estero.
Sebbene possa esser legittimo considerare che non è compito principale delle gallerie, ma dei musei, spiegare la personalità, il percorso o il contributo particolare di un artista, diventa comunque imprescindibile distinguere le mostre che, nonostante la naturale e lecita intenzione commerciale, esprimono o sviluppano contemporaneamente un progetto culturale solido – indipendentemente della maggiore o minor portata – rispetto a quelle indirizzate esclusivamente al mercato.
Soprattutto a Roma, la città in cui Boetti si era trasferito e dove aveva iniziato a firmarsi “Alighiero e Boetti” – compiendo così la quadratura del suo nome e cognome, che diventava in questo modo di sedici lettere, e contemporaneamente il suo sdoppiamento simbolico fra sfera privata, il nome, e sfera pubblica, il cognome -, l’eccitante attesa di vedere esposti di nuovo i suoi lavori, l’aspettativa e il desiderio di venire coinvolti davanti alle sue mappe, nel suo ecletticismo, nel suo amore profondo per l’Afghanistan in primis, non può che deludere chi si aspettava di più.