Lâobiettivo di molti fotografi, ultimamente, sembra inseguire un impalpabile soggetto comune: la traccia della vita passata. Emerge la volontĂ di suggellare il carattere nostalgico della memoria, ognuno a proprio modo. â
Ă una questione generazionaleâ, spiega
Alberto Di Cesare (Roma, 1978), una delle voci di questo coro di creativi. Una generazione che ricorda ancora malinconicamente lâodore della coccoina sui banchi di scuola.
In
Luoghi (dâAffezione), il fotografo capitolino riesce a proiettare la sua lettura sensibile e particolareggiata di oggetti e luoghi abbandonati. Uno sguardo malinconico per qualcosa che non tornerĂ , che ha finito il suo corso terreno, ma che permane come forma eterea, come pura percezione sensibile. Il suo lavoro fotografico, dalla ricerca dei luoghi al posizionamento degli oggetti, risulta essere inserito in meccanismi non razionali, dettato da una mano che agisce sotto lâinflusso della sua carica emotiva.
Gli scatti di Di Cesare sono investiti da quella sensazione che Roland Barthes provò quando scovò la fotografia della madre da bambina. La
Foto del Giardino dâInverno, la chiamava, lâunica immagine che, fra tante, rappresentava la madre nella sua particolaritĂ , nella sua valenza unica. â
La scienza impossibile dellâessere unicoâ, scriveva in
La camera chiara. Tale unicitĂ , Di Cesare la lascia scovare allo spettatore, in scatti che abbracciano un tempo talmente avvolgente da poter trovare lo spazio giusto per ogni diverso sguardo.
Spazi e oggetti si fondono insieme nella nostalgia del tempo, testimonianze concrete del noema âè statoâ, ma anche emblemi di una certa metafisica dello scatto. Una lettura alquanto schizofrenica, ma che risulta elemento distintivo del mezzo fotografico. Stanze abbandonate, di case fantasma, allâinterno di piccole cittĂ disabitate. Ă questo che Alberto Di Cesare va a scovare, spinto dalla curiositĂ e dal desiderio di far parlare il non detto.
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Gli oggetti di cui trovo abitati i luoghi, nel tempo, hanno preso una valenza preponderanteâ, racconta. Sono essi che trascinano avanti la carica empatica della foto. Da loro si sprigiona quellâenergia del vissuto che tramuta uno stendipanni arrugginito in qualcosâaltro, in un reliquiario di memorie ed esperienze. Per tale motivo, anche gli oggetti veri e propri sono esposti insieme ai loro doppi fotografici, come se la potente carica di cui il tempo li ha pervasi non abbia avuto altra fuga che la realtĂ . Non tanto per dar loro una seconda opportunitĂ di vita, ma per rendere visibile la loro essenza ologrammatica.