Tra disegno e video, fotografia e pittura. Non in bilico ma in costante sovrapposizione. L’intera produzione di Andrea Aquilanti (Roma, 1960) sfrutta così le possibilità espressive di diversi media, a servizio di una visione partecipativa dell’arte. Il suo lavoro infatti parte perlopiù da una riproduzione realistica per poi aprirsi al coinvolgimento dello spettatore –attore a tratti inconsapevole– su un palcoscenico che quotidianamente calca, ma che l’artista romano sposta dalla sua naturale collocazione, caricandolo di nuovo senso.
Così fu, ad esempio, per la mostra I passanti, proposta a Roma del 2004, e lo stesso accade ora in Teatro. Ma se allora Aquilanti, attraverso la tecnologia video, trasportò il Lungotevere all’interno della Galleria Ugo Ferranti rendendo i visitatori parte del lavoro –e in qualche modo protagonisti– con il loro passaggio davanti la proiezione, oggi questi irrompono nell’opera pur essendo effettivamente assenti. E il binomio disegno/videoproiezione si trasforma in uno sfondamento della quinta più che in un’irruzione dell’esterno nello spazio espositivo. Un’inversione di prospettiva che emerge grazie alla ripresa fatta fuori del teatro ai passanti che, sebbene riproposti, in tempo reale, all’interno e sopra il disegno del panorama nel quale si muovono, offrono la visione di un affaccio dalla finestra traslata dalla arcate in cui sono proiettati.
Questa presenza umana –talvolta appena percettibile, talaltra evidente– fa vivere il lavoro di una delicatezza ancora maggiore rispetto al disegno iniziale, allontanandosi dall’idea di scenografia a cui lievemente allude senza mai cadere nell’istinto dichiarativo.
In Teatro, quindi, la lettura del lavoro si arricchisce della duplicità partecipativa e visiva. Una dimensione ulteriore è poi percepibile qualora si visiti la mostra in orari differenti. Con il cambiamento della luce naturale –e poi con l’illuminazione artificiale– il lavoro in parte muta facendo emergere di giorno il delicato scenario, mentre di notte le figure di passaggio si fanno più nette e dominanti.
La sera dell’inaugurazione inoltre, un’altra riflessione sull’apparenza e sulla percezione visiva si è consumata nella performance di Filippo Timi, che ha fischiettato note canzoni popolari sulla registrazione della sua voce recitante un brano che Marco Lodoli ha scritto appositamente per la mostra. Era lo sfogo di un bimbo invisibile. Inesistente, per la verità, ma terribilmente reale.
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basta le faceva meglio pancraxi!!!