Raccolti e assemblati, gli oggetti nelle opere di
Matteo
Peretti (Roma,
1975) si accumulano coi pretesti più disparati: un contesa d’amore, una
battaglia fra carri armati e catapulte, una torre da difendere.
Nel gioco infantile non c’è distinzione fra realtà e
immaginazione, e tutto è possibile. Se l’approccio ludico dell’artista si
ispira alla libertà creativa del bambino, è la società contemporanea a esser protagonista.
Con le sue sovrapposizioni di stimoli continui, di emozioni, vere e false, di
necessità e consumi effettivi o presunti.
Le quaranta opere esposte sono una selezione effettuata
all’interno dell’ultima produzione che, come sempre nel caso di Peretti, è eterogenea
nei linguaggi, nonostante la poetica non cada mai in contraddizione: proprio
quando il nesso sembra venir meno, si riscoprono infatti collegamenti. Martina
Cavallarin, curatrice di questa personale, ha dunque raccolto pannelli e
sculture monocromi, oltre che ritratti.
Nei primi, gli oggetti perdono la loro funzione e
diventano cose, mute se intese singolarmente. Soltanto la coralità delle
relazioni che li legano ha voce. Nuova vita, vita di relazioni possibili, di
sovrapposizioni e mescolanze, vita diversa per ciascuno ma allo stesso tempo
uguale per tutti perché, se la forma differisce e distingue, il colore amalgama
e omologa. C’è un fulcro della storia da cui scaturiscono queste relazioni, ma
la causa, l’occasione d’inizio si perde nell’accumulo, dando spazio a libertà
interpretative e a letture molteplici.
L’esistenza non è forse esattamente così? Nelle
televisioni di Peretti, ad esempio, si può rintracciare una riflessione sulla
manipolazione dell’informazione o sul rapporto delle nuove generazioni con il
mezzo televisivo.
Chi è ritratto da Peretti, invece, diventa un essere
minuscolo al cospetto d’un oggetto che ne caratterizza la personalità,
l’aneddoto o la storia. Emerge il nostro doppio tanto quanto l’immagine che gli
altri percepiscono di noi o quella che ci costruiamo per identificarci. Diventa
un bicchiere in cui tuffarsi, un uovo in attesa di schiudersi, una sedia per
esercizi di equilibrismo. Oppure il mondo da portare avanti, come in
Barack, intento a spingere la Terra da
qualche parte, un Atlante vincente a cui affidarsi.
“
Giocando s’impara”, dice Peretti. Lui ci mette il gioco, l’evasione,
l’assurdo, da cui trapelano tanto i misteriosi e buffi meccanismi dell’amore (
Point
of view) quanto
il ridicolo, l’amaro, il grottesco (
Synthetic Brain- Ferrari). Sta a noi imparare qualcosa di
nuovo su di lui, sul mondo e su noi stessi.