Per la prima volta a Roma, l’artista iraniano Farhad Moshiri (Shiraz, Iran, 1963) mette in scena il dialogo complesso tra due mondi profondamente diversi, ma in continua relazione tra loro.
Da una parte l’universo occidentale, fatto di benessere diffuso e libero mercato, fondato sulla plutocrazia e lo strapotere del prodotto industriale. Dall’altra il mondo orientale, e in particolare la natia Persia, in cui si mescolano i molteplici aspetti di una storia contraddittoria, tra regimi e democrazia, fondamentalismi arcaici e spinte alla modernizzazione. Est ed ovest si guardano l’un l’altro attraverso lenti deformanti, generando interpretazioni reciproche su cui l’artista -nato in Oriente ma formatosi negli Usa- è capace di tessere giochi ironici e spiazzanti. Una sorta di euforico ed eccessivo “Las Vegas meets Teheran”.
Nel suo imponente Autoritratto (dalla serie Living Room Ultra mega X), l’artista unisce il lusso delle corti persiane e l’esaltazione del leader tipica dei regimi autoritari del Medio Oriente, con il mito illuministico della ragione umana partorito dall’Occidente e simboleggiato dal fastoso lampadario sospeso. Così, la religione della ricchezza e del progresso tecnologico occidentali, s’incarna nelle altre opere di Moshiri in oggetti dallo sfarzo insieme eccessivo e fittizio: Stereo Surround Sofa presenta un hi-fi d’ultima generazione poggiato su un divano dal gusto barocco, il tutto coperto da un’omogenea patina dorata. E anche gli arazzi su velluto nero ricamati da donne iraniane, uniscono alla fattura artigianale immagini della cultura di massa o scritte altisonanti (God), rilucenti di paillettes e cristalli multicolori.
La democrazia e la libertà, diffuse oggi con la forza da un Occidente sempre più potente, rappresentano un altro mito del mondo attuale: esse diventano nell’immaginario dissacrante dell’artista persiano gli strumenti concessi a tutti per progettare costruzioni di Lego dorati negli spazi della galleria (The Ultimate Toy “Legold”. Hundreds of Gold Bars To Build Anything You Want. Anything!). In nome di ciò che Moshiri definisce “il pensare euforico e l’ottimismo naïf”, anche l’incubo delle armi di distruzione nascoste più o meno verosimilmente in Medio Oriente diventa oggetto di un trattamento insieme ludico e riflessivo. Nel magazzino della galleria centinaia di pistole in plastica dorata, impacchettate come gadgets di larga diffusione, fanno mostra di sé, mescolate a telefoni cellulari e telecamere giocattolo (Rogue). Simboli di una guerra tra civiltà fatta con le armi della comunicazione e dell’economia, oltre che con quelle tradizionali. Servendosi del kitsch, del gusto eclettico e dell’accostamento di elementi incongrui, Moshiri parla di universi distanti e vicini. E delle contraddizioni del tempo attuale in cui globalizzazioni e conflitti agiscono contemporaneamente a formare l’anatomia complessa del mondo.
costanza paissan
mostra visitata il 4 gennaio 2005
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