Difficile spiegare lo strano caso di Fabrizio Clerici (Milano 1913 – Roma 1993).
Naturalmente stendhaliano, secondo un’azzeccatissima definizione dell’amico Alberto Savinio (che in questo genere di cose difficilmente sbagliava), metafisico -se ci passate il termine- sui generis, classico come Puvis de Chevannes ed inquietante come Klinger, amato dalla critica (hanno scritto di –e su di- lui, tra gli altri Argan e Federico Zeri), meno conosciuto dal pubblico, molto spesso citato dal cinema. Che da lui ha colto molteplici suggerimenti: dai relitti di architetture fantastiche, alle ambientazioni lunari.
Così la retrospettiva ospitata al Vittoriano in questi giorni (realizzata in collaborazione con l’Archivio Clerici: circa 116 opere tra quadri, due sculture e una serie bozzetti per scene e costumi che documentano Clerici scenografo teatrale) diventa un’occasione per (ri)scoprire l’artista, forse un po’ troppo penalizzata dai tempi brevi (solo due settimane, stretta tra il top lot Henri Toulouse-Lautrec e l’imminente Paul Klee); il criterio è quindi quello di un’antologica, con un’ampia -quasi affollata- selezione di opere per tracciare lo spaccato di un’attività multiforme, in grado di spaziare con uguale originalità d’intuizione tra pittura e teatro.
In un olio su tela del ‘55 aveva dipinto Venezia, ma senza acqua, sospesa su esili palafitte: un rilevo preciso, sottile, un’immagine messa a fuoco con precisione lenticolare. Molto del fascino delle opere di Fabrizio Clerici sta proprio in questa capacità nitida di costruire ed evocare: architetture impossibili –come questa Venezia priva di laguna ed issata sui trampoli- rovine misteriose, fuori dal tempo o appartenenti d un altro tempo, o –ancora- stanze vuote, scandite dal reticolato di piastrelle del pavimento, illuminate da un chiarore luce straniante (Le due stanze del 1978 o l’affascinante Pro-Menade del 1973).
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