Guardando al cinema hollywoodiano degli anni ’70, Laura Mulvey sosteneva che l’immagine della donna come materiale (passivo) grezzo per lo sguardo (attivo) dell’uomo aggiungesse un significato ideologico alla forma filmica narrativo-illusionista, perpetuando la struttura patriarcale. Il codice cinematografico creerebbe “uno sguardo”, un tipo di voyeurismo che, nello specifico di quell’epoca, corrispondeva a quello maschile, per cui il soggetto femminile implicato lo era solo a misura del suo essere oggetto del desiderio.
Valie Export (Linz, 1940), nome omaggio al logo-identity, è ospite dello Studio Stefania Miscetti. In mostra una serie di testimonianze di happening che arrivano fino al 1986, in un “lungometraggio” di ottanta minuti. Alla videostory si accompagnano residui di pellicola inedita e l’ultima testimonianza di Export alla Biennale di Venezia dello scorso anno. Lo sguardo maschile e patriarcale colto da Mulvey viene sadicamente e ironicamente capovolto dall’artista austriaca. In
Tapp und Taskino indossa una scatola di cartone, a mimare una sala cinematografica, invitando gli astanti a toccare il suo seno, annullandone il desiderio erotico e pornografico. In
Mann & Frau & Animal offre il piacere sessuale della donna al puro sguardo (e non quello impuro) della camera che esplora il sesso nei piani ravvicinati.
Export porta sulla scena se stessa, il suo essere donna priva di pudori, e già questo valorizza una scena artistica (condivisa con
Carolee Schneeman) che aveva fino a quel momento visti impegnati nell’utilizzo del corpo come materia espressiva i soli autori maschili, da
Nauman a
Oppenheim fino ad
Acconci. Utilizza poi il linguaggio, il medium -omaggiando McLuhan- per far luce sul modo in cui emerge l’identità, in-formata da uno sguardo che manipola e omette, naturalizzando uno status di donna oggetto. Emerge progressivamente nel collage visivo un’ansia che la materia filmica, l’usura della pellicola rende indubbiamente più vera e che il sonoro elettronico straniante e il contenuto stesso contribuiscono a creare.
Pur distante dagli eccessi dell’Azionismo viennese, anche Export cede all’uso più esplicito dell’esperienza corporale: in
Asemie versa cera calda sul suo corpo nudo, in
Remote si ferisce unendo il suo sangue al latte di fronte alla foto di due bambini vittime di un abuso. Nel caleidoscopio di sguardi che invita ad attivare, l’immaginario catodico si imprime nelle ultime opere, dove il corpo sociale è quello più prettamente televisivo.
Appare incauta la scelta di legare i differenti video, siano essi testimonianza di un happening o opere in cui la forma filmica non prescinde dal contenuto ma, anzi, lo costruisce, constringendo il visitatore a una visione “forzata”, temporalmente dilatata nei suoi ottanta minuti. Tuttavia, una fruizione dissociata in un numero di video corrispondente agli spezzoni assemblati non avrebbe avuto la stessa forza psicologica. Le opere di Export chiedono di essere penetrate, sensualmente e sessualmente. Il corpo si finge viatico dell’eros e chiede l’abbattimento di ogni codice.