Se
non scatta la molla della curiosità, tutto rimane immobile, avvolto com’è in
una sospensione spazio-temporale. Complice la luce soffusa, anche. La
sensazione è quella di entrare in uno scantinato, o in una casa da tempo
abbandonata e ritrovata, come suggerisce l’autore. Contenitori d’informazioni
che sollecitano riflessioni.
Sostare
sullo zerbino – “
sulla soglia”
– è la prima mossa. Poi bisogna afferrare la maniglia, girarla e aprire la
porta.
Rodolfo
Fiorenza si mette in gioco anche
come spettatore, percorrendo gli ambienti di Volume! come qualsiasi altra
persona del pubblico; è consapevole delle sue azioni, dato essenziale per la
riuscita dell’esperimento.
La
prima porta è il sipario che separa da un ambiente minimo, “
una scatola nera”. La camera oscura? Forse. Oppure l’interno di una
macchina fotografica. Subito dopo c’è un’altra maniglia, un’altra porta da
aprire e poi richiudere.
La
fotografia che compare, oltre la prima porta, è quella dell’ingresso di una
chiesa rupestre della Cappadocia che, a sua volta, introduce in un interno che
è esattamente quello dello spazio espositivo. Affioramenti, luoghi amati dal
suo interprete: la Cappadocia o Matera, con i suoi insediamenti scavati nel
tufo, espressione del ritmo del tempo. Un po’ come, del resto, Fiorenza prova
girando per Roma, a cui rimandano gli elementi architettonici che coglie
all’interno di Volume!
Tutte
le foto sono grandi stampe in bianco e nero, in cui non c’è il racconto del
reale, ma si parla di “
ombre, caso e memoria”. La fotografia è un linguaggio che appartiene
all’autore fin dagli anni ’70: è la traccia del presente.
Un’altra
porta si apre su una finestra dove la luce, passando attraverso la grata, crea
una sorta di tappeto, mentre all’esterno si staglia il profilo di un edificio
contadino, pulito ed essenziale. Un’altra ancora – l’ultima – vede la presenza
di una donna mediterranea sullo stipite della sua casa decadente, trent’anni fa
dalle parti di Ballarò, Palermo.
Non
è fondamentale conoscere le coordinate; meglio lasciare spazio alla fantasia,
alle libere associazioni. Si tratta di decidere fra memoria e oblio, come
scrive Doris von Drathen, la quale parla del cardine della porta che diventa
“muscolo cardiaco e punto di rotazione dell’intrinseca idea di libertà in
questo lavoro. Al contempo però la costruzione dell’intelaiatura conserva uno
dei più antichi principi ordinatori tramandati dall’età classica, ovvero la
collocazione di quadri e sculture in ‘loci’ architettonici ben definiti, in
nicchie, finestre, intelaiature, in modo da renderli più facilmente
riconoscibili e memorizzabili”.
“È proprio in una simile cornice”, prosegue la curatrice,
“
che, per esempio, Giotto fa comparire le sue
figure di Vizi e di Virtù negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a
Padova, conferendo ad esse un accento teatrale. Ciascuna appariva in un suo
luogo precipuo ed aveva uno sfondo individuale”.
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il comunicato stampa e il catalogo li avevo già letti ...