La lista di artisti è importante e Genazzano ne ospita le opere in un Castello dell’XI secolo. L’allestimento è curato e il concept nasce dal film di
Wim Wenders,
Falso movimento, su cui interferiscono tutti i lavori. Da qui l’idea di movimento nella sua accezione dell’andare oltre, come nel portentoso
Back in Black (2005) di
Adrian Tranquilli, che s’impone scenografico con un immenso cerchio di carbone all’interno del quale un pensieroso e abbattuto Batman è in bilico tra l’uomo perdente e il mito vincitore.
Più scientifico
Richard Journo, in cui l’immagine di un corpo nudo viene proiettata dall’alto verso il basso a riprendere le iconografie secentesche delle lezioni di anatomia, quelle del
Signor Tulp di
Rembrandt. Il video è la costruzione scheletrica fino alla totale composizione del suo corpo, scandita da un sound che si scopre essere traduzione sonora delle lettere che compongono il titolo dell’opera,
Biotechnology bodymachine (aesthetika genetika continues). Sempre anatomico l’intervento del 2005 di
Alessandro Bellucco, per l’occasione incrementato da anomali sonori dormienti o sofferenti di un uomo, la cui carnalità sanguigna richiama la materia delle tele cruciformi, anch’esse in mostra.
Rocco Dubbini, dislocandosi in due sale distinte e ostacolate da un viale di cipressi falsamente prospettico, stupisce con un lavoro concettuale che si interseca saggiamente con le intenzioni della curatela. Costringe sarcasticamente gl’interventi successivi di
Bruna Esposito e
Nordine Sajot in una barriera architettonica entro cui entrare e uscire. All’ingresso, l’ufo-cupola di tufo si contrappone alle stampe fotografiche che ne riprendono l’interno, digitalizzandosi, in uscita, in un video animato sospeso nell’aria. Slegato da questa morsa il contributo di
Alessandro Bulgini, che pur ne riecheggia il concetto architettonico. Divaricando ulteriormente il concetto di straniamento del progetto
Hairetikos, pone le tele in una condizione di irraggiungibilità architettonica, a cui è ancora più impossibile giungere, se non tramite la fragile scala impraticabile.
Carlo De Meo e la cappella affidatagli: le immagini sacre affrescate sottolineano la solitudine del suo alter ego, quasi a rubargli la scena. Divertente e drammatico come sempre, ci invita in un contesto bombardato di cose e racconti. Ma prima pulitevi le scarpe con il tappetino a forma di zeta di Zorro. Una linea di demarcazione.
E sui limiti della storia, del tempo, conclude
Gea Casolaro, incalzando con la semplicità del quotidiano, col gesto usuale, con l’accaduto che riaffiora in un binario tanto anonimo e freddo quanto noto e rovente per il suo accaduto. Il racconto sussurrato di una strage. Quella di Bologna, proiettata in un camino.