Una mostra d’arte contemporanea che ha per tema il doppio, proprio perché scontata può facilmente risultare fuori fuoco. Troppo vasto e scivoloso l’argomento, troppo agevole includervi – a proposito di ambivalenze – tutto e il contrario di tutto.
La teorizzazione del perturbante psichico e il dibattito sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, solo per citare due tra i più succosi ambiti di riflessione del secolo scorso, entrambi riconducibili a un’indagine sul doppio, sono territori obbligati per chi intenda gettare uno sguardo minimamente d’insieme sull’epopea visiva del presente. Senza dimenticare la lezione di mostri sacri come
Duchamp e
Warhol, che decontestualizzando e serializzando hanno aggiornato il sentimento del sublime agendo proprio su uno scollamento, quello tra significato e significante. L’immagine contemporanea è doppia in se stessa, verrebbe da dire. Perciò il minimo che si possa fare è aspettarsi opere bipartite, formalmente e concettualmente.
Date queste premesse, l’alto tasso di leggibilità di una collettiva estroversa come
Lo sguardo di Giano, se da un lato comporta un generale appiattimento in superficie della complessità presa in esame, d’altro canto costituisce una sicura contromossa al rischio polpettone, vista la difficoltà di focalizzazione di un tema refrattario a farsi concept. I non pochi lavori selezionati si susseguono lungo due corridoi diventati lato destro e lato sinistro (come a dire
volto destro e
volto sinistro), in un percorso a zig-zag calibrato e godibile, come specularità immediatamente ravvisabili in quanto tali, fulgide esemplificazioni che lasciano poco spazio all’elucubrazione e al fraintendimento. Convenientemente, un contrappunto ai tanti interventi formalizzati come smaccatamente “doppi”, nonché alla preponderanza di lavori a parete, viene offerto dalla varietà dei mezzi espressivi e dei materiali, per l’occasione adunati in gran numero, pittura (su specchio) compresa.
Ci si può quindi accostare a questo group-show con un approccio complessivo e un po’ epidermico, e in alternativa alla riflessione più pura (nel senso del rispecchiamento di elementi identici, o pressoché tali) scegliere come chiave di lettura il chiasmo d’insieme tra processo artigianale ed estetica mediale, tra pratiche a bassa fedeltà e immagini passate attraverso la tecnologia, tra ingombro oggettuale di elementi fragili e volatilità “dura” di fotografie e riprese video. Agli estremi andranno collocati, da un lato le campiture concettuali ottenute da
Christian Capurro col bianchetto per correzioni, la scomposizione realizzata in poliplat, spago e bastoncini da
Gedi Sibony e il disegno su carta semitrasparente di
Armando Andrade Tudela; sull’altro versante, uno scatto fotografico nel contempo diurno e notturno, di
Thomas Weiberger, la doppia interpretazione di un brano musicale, filmata e montata su doppio canale da
Marco Fusinato, e la proiezione de
Il vangelo secondo Matteo di
Pier Paolo Pasolini e
Jesus Christ Superstar di
Andrew Lloyd Webber, messa su in simultanea da
Damiano Bertoli.
Nel merito della questione, l’utopia di uno sguardo (e di un tempo) doppio
perché perfezionato, passa anche per l’impossibilità di attribuire patenti
avant sulla base della semplice scelta, da parte dell’artista, di strumenti “nuovi” e sofisticati, anziché desueti e rivisitati. Ma si tratta, bisogna ammetterlo, di una conquista vecchia e acclarata, degna del sorriso di un Giano. Infatti il momento attuale è propizio, più che per l’effettistica tecnologizzata, per una altrettanto perniciosa retorica
vintage.