Trecento occhi pieni di umanità colpiscono il visitatore che entra in galleria, dove sono esposte centocinquanta tele raffiguranti teste di pecora dai tratti incisivi e dai colori espressionisti. È l’ultima installazione dell’artista israeliano
Menashe Kadishman (Tel Aviv, 1932), curata da Arturo Schwarz.
Le opere esposte alle pareti e sul pavimento su piccoli cavalletti invadono tutto lo spazio. Un vero e proprio gregge, ma anche una celebrazione del colore. Tutte opere uniche, ognuna con la sua specificità: su alcune tele l’artista ha inserito dei neon, su altre delle pietre, sabbia, resina; c’è la pecora islamica, la pecora mamma che benedice il figlio, dal sapore fortemente biblico, e quella dove appare un chiaro riferimento al sacrificio di Isacco. Elemento comune a tutti i ritratti sono gli occhi questi animali, che incrociano quelli del visitatore non lasciandolo indifferente.
Nella prima sala, due opere particolari: un trittico dedicato alle tre religioni, la cristiana, l’ebraica e la musulmana, e in un angolo a terra una testa di pecora con accanto alcuni oggetti ovoidali in metallo, che rappresentano volti impauriti e disperati. Sono gli stessi volti che Kadishman ha realizzato per l’opera
Foglie cadute, che occupa il pavimento di un’intera sala del Museo ebraico di Berlino, dove il visitatore è invitato a entrare e a camminare scoprendo a ogni passo sotto i propri piedi i volti sofferenti che, al suo passaggio, provocano un suono inquietante.
Kadishman è considerato il più importante artista israeliano vivente: anello di congiunzione tra gli artisti del Novecento e gli esponenti della nuova generazione, il suo lavoro è basato sull’eterno ricordo biblico. Infatti, la ripetizione quasi ossessiva di questo soggetto, le pecore, ha proprio un’origine veterotestamentaria e l’umanità degli occhi di questi animali riporta al ricordo dell’Olocausto. Inoltre, Kadishman è nato in un kibbutz da una famiglia di pastori, e questa esperienza non ha mancato di influenzare la sua modalità espressiva. Infine, Kadishman è anche l’artista che, nel 1978 alla Biennale, fece scandalo per aver portato a Venezia un vero gregge di pecore che, macchiate di blu, giravano per le sale guidate da un pastore.
L’artista, presente a Roma in occasione dell’inaugurazione, ha ricordato la guerra del Kippur a cui a partecipato come soldato e dove molti ragazzi come lui hanno perso la vita. “
A venticinque anni, credetemi, nessuno vuole morire”, racconta mostrando una sua opera in cui, in più lingue, compare la frase “
non abbiamo bambini per la guerra”.