Sin dall’inizio, infatti, la
biennale si è svolta tra le rovine della Sinagoga di Ostia Antica,
intrinsecamente carica del simbolico significato di essere una delle più
antiche testimonianze archeologiche nel Mediterraneo dell’ebraismo della diaspora
(I sec. d.C.). Nell’inossidabile convinzione che non esista una cesura, bensì
una continuità fra l’arte antica e quella contemporanea, che difatti fluidamente
dialogano senza alcun fraintendimento (le opere di Sol LeWitt, Gal Weinstein e Pedro Cabrita Reis donate
dagli artisti nelle precedenti edizioni ne sono testimonianza). Con
l’ulteriore convincimento che l’arte, ancor più delle parole, è capace di
continuare a trasmettere la memoria storica del dramma dell’Olocausto.
Situata nel punto estremo degli
scavi, a sud della via Severiana, e orientata verso Gerusalemme, la Sinagoga si
presenta oggi scollata dall’intera trama architettonica del sito archeologico,
perché un ampio campo coltivato a erba medica la separa dall’antica città. È su
questa distesa che si colloca l’intervento del tedesco Jochen Gerz. Noi e loro (un
legame, un vuoto, una perdita, una traccia, una metafora, una memoria) è
l’anticipo di un evento che in futuro diventerà memoria. O meglio, Gerz ha disseminato
nel campo più di ottanta targhette riportanti dei nomi. Immediatamente si cerca
di mettere a fuoco chi possa essere, ad esempio, Wolfang Krostitz o Marco
Jacopo Kauffmanin o Mara De Angelis.
Per quanto ci si possa sforzare,
sono nomi che non riescono a evocare nulla nella nostra memoria. Ed è naturale,
perché in realtà non sono personaggi connessi a qualche episodio storico o
particolare evento, ma nomi di persone legate all’adesso, all’oggi, di abitanti
ostiensi, che l’artista ha recuperato dall’elenco telefonico del 2010. Una
sorta di non-monumento a una non-memoria.
Un collegamento tra passato e
presente e tra le diverse realtà geografiche, di cui l’arte abbatte i confini
spazio-temporali, è quello che l’inconfondibile cerchio in quarzite di Richard Long ha voluto significare con Bristol-Roma
Circle, posto nel vestibolo che precede la sala di lettura della Torah. Come
a indicare la sacralità della natura, Spazio
di luce di Giuseppe Penone, simbolicamente
orientato verso est, è collocato nel luogo più sacro della sinagoga, nella sala
della Torah, vicino alla nicchia dove erano custoditi i Rotoli della Legge. Un
pezzo di tronco di un albero, di cui è stata conservata solo la corteccia,
realisticamente realizzata in scuro bronzo, come sopravvissuta a un incendio,
ma che conserva un’anima preziosa, seppur plasmata e percorsa dall’uomo.
Infine, nell’aula costruita
successivamente al nucleo originario, Liliana
Moro ha posizionato la sua Stella
Polare. Su un’asta alta cinque metri, l’artista ha collocato una grande
sfera in polietilene che emana costantemente una luce gialla, per indicare la
direzione e per segnalare un luogo.
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mostra visitata il 9 febbraio
2011
dal 30 gennaio al 3 aprile 2011
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a cura di Adachiara Zevi
Sinagoga di Ostia Antica
Viale dei Romagnoli, 717 (area archeologica di Ostia Antica) – 00119 Roma
Orario: da martedì a domenica ore 11-16
Ingresso: intero € 6,50; ridotto € 3,25
Info: tel. +39 0656358099; ufficiostampa@fondazionevolume.com
[exibart]
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