Secondo appuntamento della Gallerja di Alessandro Boncompagni Ludovisi, inaugurata nella Capitale pochi mesi fa. La mostra in corso rivolge la propria attenzione al tema dell’identità, presentando un viaggio attraverso la rappresentazione del sé, “opposto” all’
altro, nell’opera di sei artisti contemporanei: Boetti, Boltanski, Lüthi, Pistoletto, Rainer e Ranaldi.
Il titolo della mostra,
Je est un autre, è una citazione da Arthur Rimbaud da una lettera indirizzata a Paul Demeny, in cui il poeta francese, attraverso un apparente paradosso linguistico, sottolinea il rapporto esistente fra il nostro essere e l’altro. Rapporto che determina la nostra stessa identità. È proprio Rimbaud, che nella sua breve vita ricoprì una serie di ruoli diversi -oltre a quello del poeta, abbandonato quando ancora era giovanissimo-, a incarnare perfettamente lo sguardo dell’artista rivolto a sé stesso e la sua capacità istrionica di cambiare.
Come nel filmato in bianco e nero di
Christian Boltanski (
Entre-temps, 2004) proiettato su una tela in cotone, dove il viso dell’artista è colto attraverso gli infinitesimi cambiamenti apportati dal trascorrere del tempo. È sempre la stessa faccia ritratta, ma cambia impercettibilmente fino ad apparire diversa.
Di
Michelangelo Pistoletto, i cui quadri specchianti costituiscono una parte importante della sua opera, è presente un lavoro appoggiato al pavimento:
Il Pittore (1962-1982) è una serigrafia su acciaio inox che apre la mostra e invita il visitatore a diffidare delle apparenze. Al centro, infatti, una sagoma nera con un pennello in mano è ritratta di spalle.
Arnulf Rainer, artista austriaco dedito da diversi anni alla ricerca sul body language, sulla comunicazione del corpo in assenza della mediazione della parola, è rappresentato da alcune fotografie appartenenti alla serie
Face farces (1970-1975). I ritratti in bianco e nero sono sovraimpressi da tratti a penna nera, enfatizzando così le espressioni e le smorfie dei soggetti. L’ambiguità sessuale dell’io è messa in risalto nella serie di autoritratti di
Urs Lüthi del 1972-2006.
Infine,
Renato Ranaldi dispiega non senza una punta d’ironia un’orchestra singolare. Poiché costituita da un solo uomo replicato all’infinito, attraverso un collage di foto del 1971, mentre suona diversi strumenti. Per ricordarci le infinite possibilità di ruoli e situazioni che si offrono al nostro io plurale.